Attualità

Dibattito. Troppe guerre e dittature, così può cambiare l'insegnamento della Storia

Gerolamo Fazzini venerdì 13 settembre 2024

I libri di Storia possono cambiare?

Cosa ricordano della Storia che hanno studiato, in particolare del ‘900, gli studenti che escono dalle superiori (tecnicamente: le scuole secondarie di secondo grado)? Non è facile stabilirlo, ma è sensazione diffusa fra gli insegnanti, e non solo, che a rimanere impressi nella memoria siano soprattutto gli eventi più tragici del secolo scorso (i genocidi, la Shoah…) e i personaggi che hanno incarnato totalitarismi e dittature (Mussolini, Hitler, Stalin, Mao…). Nel 2012 una tesi di dottorato presentata da Milena Rombi alla Sapienza di Roma, frutto di un’indagine empirica, rilevava che «gli studenti percepiscono come fondamentali soprattutto gli argomenti della storia politico-militare- diplomatica, come si evince dall’importanza attribuita alle guerre mondiali, ai regimi totalitari, alle ideologie politiche, alla guerra fredda». In precedenza, l’Indagine sull’apprendimento della storia tra gli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori, condotta nel 2000 da Umberto Chiaramonte per conto dell’allora ministero della Pubblica Istruzione, arrivava a conclusioni non dissimili.

Alla domanda “Quali temi ti hanno maggiormente interessato?” il 50% delle risposte indicava le guerre mondiali; per il 25% i sistemi totalitari del XX secolo. Sono passati anni da allora, c’è da augurarsi che le cose siano migliorate. Ma, a sentire gli esperti, non è così. Del resto, se della storia del secolo scorso si conosce poco e quel poco è principalmente tinto di nero, sono vicende e persone che rimandano al Male, quali ripercussioni educative produce tutto questo? Quale visione antropologica, volenti o nolenti, viene veicolata da un tipo di narrazione storica del genere? Cosa si sedimenta nella coscienza dei giovani? È necessario capire se e come sia possibile adottare un approccio diverso alla storia contemporanea. Un approccio che - senza negare il fatto che l’intero ‘900 grondi lacrime e sangue - sappia mettere in luce anche vicende e figure positive. Si tratta di un’operazione che richiede, inevitabilmente, di andare controcorrente.

La visione mainstream è ben esemplificata dal penultimo libro di Paolo Mieli, “Il secolo autoritario” (Rizzoli 2023). Giornalista con una solida e rara formazione storica, opinionista fra i più ascoltati oggi in Italia, autore televisivo di trasmissioni importanti, Mieli ha scelto come sottotitolo del suo volume “Perché i buoni non vincono mai”. Spiega nella presentazione: « Nessuno troverebbe da ridire di fronte all’affermazione che il secolo degli autoritarismi sia stato, per antonomasia, il Novecento, con due regimi nazifascisti che hanno incendiato l’Europa e innescato la Seconda guerra mondiale e la creazione, a Oriente, di quello che diverrà il blocco sovietico, sopravvissuto fino al 1989».

Tutto vero, per carità. Ma davvero i buoni non vincono mai? Gandhi, Martin Luther King, Mandela (e l’elenco potrebbe continuare) rappresentano, quindi, solo splendide eccezioni? E il Novecento è stato soltanto violenza, guerre, regimi dittatoriali? «Certo che no» sottolinea Paolo Colombo, professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche nella Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna anche Storia contemporanea. «Sia nell’insegnamento della Storia così come nella comunicazione giornalistica, si dovrebbe evitare di privilegiare solo il negativo, perché la Storia non è fatta solo di tragedie. Purtroppo noi italiani sembriamo incapaci di raccontare con toni coinvolgenti la nostra storia, come invece sono bravissimi a fare gli americani i quali, anche a costo talvolta di scivolare nella semplificazione, sanno trasmettere valori positivi raccontando il loro passato. Dirò di più: i giovani sono terribilmente attratti dalle tragedie, tuttavia, quando incontrano personaggi positivi, si appassionano ad essi».

Colombo ha inventato da anni un’originale modalità narrativa per comunicare in modo avvincente la sua disciplina; tiene persino spettacoli a teatro e realizza podcast di taglio storico per Il Sole 24 Ore. L’indice del suo volume “History Telling: esperimenti di storia narrata” (Vita e Pensiero 2020) documenta bene quest’attenzione al “positivo”. Accanto a una parte intitolata “Homo homini lupus” (che narra, in due distinti capitoli, la distruzione di Varsavia nel 1944 e lo sfruttamento del Congo), ve n’è un’altra, “Capitani coraggiosi”, nella quale sono presentate le figure di John Fitzgerald Kennedy e di Adriano Olivetti, «un gigante che finalmente stiamo riscoprendo, al quale l’Italia deve molto».

«La storia è il principale strumento a nostra disposizione per cercare di capire le cause sociali», osservano Ernesto Galli della Loggia e Loredana Perla in “Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo” (Scholé-Morcelliana 2023). Alla pedagogista dell’Università di Bari il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, ha affidato il coordinamento di una Commissione di studio di esperti incaricata della revisione delle Indicazioni nazionali e delle Linee guida relative al primo e al secondo ciclo di istruzione. Interpellata da Avvenire, Perla spiega: «Nessuno sembra più porsi la domanda cruciale: a cosa deve servire la scuola? Questo accade, forse, per la stessa ragione per cui l’insegnamento della Storia è in crisi, ossia la difficoltà di renderla attraente e motivante». Continua Perla: «La Storia è una disciplina fondamentale perché rappresenta il cardine trasversale del curricula. La riduzione delle ore di Storia nella scuola è stata una scelta non felice e mi auguro che si possa tornare a darle lo spazio necessario. La Commissione va in questa direzione. L’obiettivo: educare gli studenti anche alla cittadinanza responsabile». Quanto alla valorizzazione del positivo, Perla, che ha alle spalle un’esperienza da insegnante, sottolinea: «Fondamentale - lo dico da pedagogista – è un’adeguata personalizzazione del passato. Un tempo nella scuola elementare si usavano i medaglioni per raccontare la storia del Risorgimento. Oggi vanno cambiate le strategie, ma lo scopo rimane lo stesso: illustrare anche esempi di figure che incarnano il Bene. Si dovrebbe insistere su questo, perché il sistema massmediale va in senso contrario. La centratura sulla persona non significa cadere nella trappola dell’agiografia, quanto, piuttosto, veicolare la convinzione che scegliere il Bene può rendere felici. E la scuola dovrebbe essere il luogo della gioia».

Incalza Andrea Caspani, ex dirigente scolastico a Milano e già docente di Storia contemporanea e di Didattica della storia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore: «Seguire fino in fondo i propri ideali, pur sacrificando la vita se necessario, dà senso all’esistenza, rende più umani. È il messaggio al centro della mostra “Franz e Franziska, non c’è amore più grande”, che ho curato con alcuni amici, dedicata alla famiglia Jägerstätter: due contadini antinazisti nel villaggio austriaco di Sankt Radegund nella prima metà del Novecento. All’ultima edizione del Meeting di Rimini è stata in assoluto la più vista, tant’è che è andato esaurito il catalogo stampato da Lev».

Insiste Caspani: «Il racconto del bene affascina. Storie come quella di Franz e Franziska documentano che l’uomo ha la capacità di opporsi a un destino che sembra segnato. L’abbiamo visto in tante occasioni: esiste la possibilità che la Storia esca dai binari del prevedibile e ci stupisca».