Attualità

Papa Francesco, Napolitano e noi. Un coraggio da domandare

Marina Corradi giovedì 2 gennaio 2014
Coraggio, è la parola che ha marcato il discorso di fine anno alla nazione del presidente della Repubblica. Coraggio come elemento decisivo, ha detto, per far scattare la ripresa di cui il Paese ha bisogno. E ci si poteva figurare gli italiani davanti alla tv: ai senza lavoro, a quelli che non arrivano alla fine del mese, ai tanti che la crisi ha sospinto ai margini. A quelli semplicemente affaticati da un anno 'pesante e inquieto'. Coraggio, ha detto Napolitano, e forse in molti si sono guardati dentro, a cercarlo, quel coraggio: ma dolorosamente hanno avvertito che è qualcosa che nei giorni duri può venire a mancare. E hanno constatato forse che davvero, come diceva don Abbondio, «il coraggio, uno non se lo può dare».  Affermazione umanamente molto vera: giacché non sono tanti, oggi, gli uomini capaci del coraggio degli stoici, di un essere forti semplicemente per onorare un dovere etico; e per molti invece il cercare di darsi coraggio somiglia alla fatica del barone di Munchausen, che cercava di venire fuori dal fango tirandosi per i capelli con le sue stesse mani. Perché insomma, il coraggio, quando va male, dove lo si va a prendere? Anche il Papa nella prima omelia del 2014 ha evocato quella parola, a proposito della benedizione che Dio suggerì a Mosè: («Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace»). Parole, ha detto il Papa, «di forza, di coraggio, di speranza». Anche i cristiani, e anche più degli altri, sono chiamati al coraggio. Ma quella forza non è il prodotto di un volontarismo, di un nobile sforzo per affrontare le avversità. I cristiani, il coraggio lo domandano. Si inginocchiano – gesto questo, per il mondo, da 'deboli' – e domandano ciò di cui non sono capaci. Il coraggio, ai cristiani viene da Dio. Così che, ha detto Francesco all’Angelus, l’augurio cristiano «non è legato al senso un po’ magico e un po’ fatalistico di un nuovo ciclo che inizia». Perché la storia ha un centro: «Gesù Cristo, incarnato, morto e risorto, che è vivo tra noi; ha un fine: il Regno di Dio, e ha una forza che la muove verso quel fine: la forza è lo Spirito Santo». E dunque quel coraggio di cui abbiamo tanto bisogno non si regge, per noi credenti, sul terreno aspro di un Sollen morale, su qualcosa di cui 'dobbiamo' essere capaci, ma su una mano aperta a domandare.Immagine che forse umilia chi ama la propria forza di carattere e il proprio orgoglio, ma conforta i più deboli; o forse, in verità, i più realisti. Giacché quel tirarsi su con le proprie stesse forze è appunto esercizio per forti; e gli altri, allora? Viene in mente la risposta del cardinale Federigo al pavido don Abbondio: quel coraggio che al povero prete manca, dice il cardinale, «c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate». E incalza: «Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? Che non facessero naturalmente nessun conto della vita? Tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario, ed essi confidavano». Confidavano, e ottenevano ciò che domandavano. Che non era, come spesso noi chiediamo, di essere liberati dalla croce, ma di saperla affrontare. Di essere sostenuti nel portare le nostre piccole, o grandi croci; di essere accompagnati, da quell’uomo che saliva verso il Calvario. Così che, in definitiva, potremmo dire che il coraggio a noi viene come un riverbero: da quel volto, accanto. © RIPRODUZIONE RISERVATA Confidando, quella forza ci arriva come un riverbero dal volto che ci è sempre accanto