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Analisi. I bonus occupazionali per funzionare devono essere mirati

Michele Tiraboschi martedì 30 aprile 2024

Il 2023 ha registrato alcuni record storici per il mercato del lavoro italiano. Pur in un contesto di crescita modesta del Pil (Prodotto interno lordo), ci siamo avvicinati alla soglia dei 24 milioni di occupati con un significativo incremento anche della componente femminile che, per quanto sia ancora insoddisfacente se confrontato con l’andamento della occupazione maschile, supera per la prima volta quota 10 milioni. Parliamo, nel complesso, di 1 milione di occupati in più rispetto al 2012 e di oltre 2 milioni rispetto al 2002. Sono soprattutto i contratti a tempo indeterminato a segnalare una robusta crescita: una volta superata la crisi finanziaria del 2007/2009, segnano una decisa impennata iniziata nel 2021 che porta oggi a registrare quasi un milione di posti di lavoro stabili in più rispetto al 2008.I numeri del mercato del lavoro vanno ovviamente interpretati. Rispetto a dinamiche decisamente complesse, qui solo parzialmente sintetizzate, un peso determinante è certamente imputabile ai cambiamenti demografici in atto. Cresce la popolazione attiva nella fascia di età 50 – 64 anni, anche per effetto delle riforme del sistema pensionistico degli ultimi anni che hanno ridotto in modo significativo le uscite per anzianità e ritardato quelle per vecchiaia. La popolazione lavorativa over 50 supera oggi i 9,4 milioni: un aumento di 418mila unità sul 2022, quasi il doppio rispetto al 2004 quando i lavoratori con più di 50 anni erano poco meno di 5 milioni.

Non va tuttavia sottovalutata l’incidenza delle numerose riforme del mercato del lavoro e, in particolare, l’introduzione di robuste agevolazioni per le assunzioni a tempo indeterminato introdotte in via temporanea tra il 2015 e il 2016 (con il Jobs Act) e poi diventate strutturali per gli under 35 a partire dal 2018.È in questo scenario che è possibile inquadrare il nuovo bonus occupazionale per chi assume a tempo indeterminato, entro il 31 dicembre 2025, giovani con meno di 35 anni, donne disoccupate da almeno 24 mesi e lavoratori di grandi aziende in crisi. Lasciando ad altri contesti – e alla puntuale lettura in Gazzetta Ufficiale delle decisioni assunte in Consiglio dei ministri – una riflessione sulle specifiche tecniche della misura, che dovrebbe comunque essere condizionata dal requisito dell’aumento netto di occupazione, tre sono le valutazioni di carattere generale che si possono formulare.In primo luogo, è positivo lo sforzo di sostenere il lavoro a tempo indeterminato. Va tuttavia sottolineato che, dopo le riforme degli ultimi anni e il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, questo non vuole dire che aumenti automaticamente anche la qualità della occupazione che dipende, infatti, dalle tutele normative e retributive che accompagnano il singolo rapporto di lavoro.

Si tratta cioè di misure che non incidono, se non parzialmente, sulla questione salariale e sul fenomeno, sempre più preoccupante, dei cosiddetti “lavoratori poveri”.In secondo luogo, prendendo in considerazione anche le numerose misure di livello regionale, l’Italia si caratterizza per una vera e propria giungla di agevolazioni e incentivi occupazionali. Per molti osservatori si tratta di un sistema irrazionale e inefficace rispetto al gioco delle convenienze di datori di lavoro e imprese. Uno spreco di risorse pubbliche soprattutto perché realizzato con misure che non incidono in termini strutturali sulle dinamiche complessive del costo del lavoro. Una terza considerazione è infine relativa al tipo di investimento sul futuro. Rispetto a un trend che registra una robusta e costante crescita del lavoro a tempo indeterminato, le scelte del decisore politico dovrebbero essere maggiormente selettive e cioè indirizzarsi sui problemi storici del nostro Paese che sono, per un verso, l’ampia area di lavoro sommerso e, per l’altro verso, la bassa qualità e produttività del lavoro.

Pensiamo, in relazione a un contesto demografico come il nostro, l’enorme impatto che potrebbe avere sulle famiglie e rispetto all’obiettivo di contrastare il lavoro “in nero”, l’impiego di queste risorse per la deducibilità totale dei costi di assunzione del personale domestico e di cura. E pensiamo a misure strutturali e selettive rispetto al tema dei fabbisogni professionali delle imprese, con interventi mirati su giovani, formazione e riqualificazione professionale, ricerca e sviluppo. Soprattutto il sistema dell’apprendistato di alta formazione e ricerca, invero mai decollato in Italia, resta ampiamente spiazzato da queste misure di carattere generalizzato. Pesa, insomma, sulla valutazione della utilità di queste misure (al pari degli incentivi a sostegno alla contrattazione di produttività) più di un interrogativo legato alla assenza di una visione sul futuro del nostro mercato del lavoro. Visione che non potrà mai emergere in assenza di un piano strutturale e stabile nel tempo delle “norme incentivo” e di quegli strumenti di monitoraggio e valutazione del loro impatto, rispetto alle scelte di lavoratori e imprese, che ancora mancano al nostro Paese.