Caso ultras. I ricatti delle curve sono il segno che il calcio è malato
Finiamo sempre all’ultimo stadio. Ed è inutile girare intorno a questa palla avvelenata che rimbalza, sempre dalla parte sbagliata: dove c’è il calcio che conta e fattura oltre lo 0-0, allora lì c’è sempre la malavita. È così almeno dagli anni ’90, da quando lo spettacolo del pallone nazionale è diventato a uso e consumo del pubblico televisivo (leggasi pay-tv, partite a pagamento) che l’industria pallonara ha alzato la posta e spesso è stata costretta ad abbassare la testa.
Con l’aumento degli introiti e degli interessi commerciali anche la curva ha cominciato a chiedere, anzi a pretendere, previa minaccia, la sua parte di guadagni, leciti o illeciti che siano poco importa. Calcio marcio. Così le società si sono piegate ai voleri dei capipopolo, dei capibastone, alias i capi ultrà, che controllano i gradoni delle curve e tutto il commercio che ne può derivare: biglietti, merchandising, spaccio di droga e attività criminali affini che contemplano anche il bagno di sangue. Questo fermo immagine è noto da decenni alle società che spesso tacciono, confermando l’assioma del giudice torinese Raffaele Guariniello che nelle indagini che portarono al Processo per doping della Juventus dall’alto della sua esperienza in fatto di romanzi criminali sentenziò: «Il calcio è il mondo più omertoso che abbia mai visto».
L’omertà regna sovrana perché questi loschi figuri, che da Genova a Milano sono finiti in manette con tanto di blitz della Polizia e della Digos, si muovono dentro e fuori lo stadio con le stesse modalità esistenziali dei Messina Denaro. Si sentono degli uomini d’onore, degli intoccabili e quindi non sorprende che il pm milanese contesti a questa sporca dozzina (sono 19 al momento) l’aggravante del “metodo mafioso” ai padrini di sponda interista e di “associazione semplice” per i ras milanisti. Opposte fazioni ad ogni derby, ma uniti più che mai nella gestione dello stadio e la piena custodia del vetusto San Siro. Così viene da pensare, tanto che forse il sindaco Beppe Sala e tutti i politici di Milano se non hanno ancora risolto l’annosa questione del nuovo stadio è perché forse non hanno interpellato quest’orda balorda che controlla l’intera vita sociale della città.
Non siamo più al tempo dei pur tragici scontri corpo a corpo e delle spedizioni punitive degli ultrà degli anni ’80 fotografati dal film “Ultrà di Marco Risi o negli scimmiottamenti di “Eccezziunale veramente” dal ras della fossa Diego Abatantuono. No, qui siamo entrati da un pezzo nell’era degli emuli di “Scarface”, bande organizzate di spacciatori e seminatori di crimini che nulla hanno a che vedere con il calcio, ma che usano il calcio per le loro attività criminali. La ’ndrangheta che era entrata nella curva juventina si è insinuata da tempo, controllando il “mercato interno” dello stadio. Un dominio assoluto passando dalle minacce e i pestaggi fino all’omicidio. Nemmeno un mese fa Andrea Beretta, un capo ultrà dell’Inter il cui nome figura nella lista dei 18 indagati a ucciso Antonio Bellocco esponente di spicco della n'drina di Rosarno.
Se ci si mette a studiare le carte delle indagini preliminari dell’inchiesta milanese ci si perde in miriadi di passaggi nazionali e internazionali che vanno da Linate fino in Brasile. La delinquenza si gemella su scala planetaria e lo fa spesso alla luce del sole. Da anni esiste un asse nero e da cronaca nera che si muove in alta velocità sul Roma-Milano. Un patto d’acciaio interista-laziale che faceva leva sul famelico Fabrizio Piscitelli, in arte Diabolik, morto assassinato secondo le modalità da regolamento di conti della malavita capitolina dai tempi della banda della Magliana. Voi vi chiederete: ma dinanzi a questo far west metropolitano le società (i club) che fanno? A quanto pare non vedono e non sentono, neppure quando si arriva alla minaccia del proprio mister: vedi il caso di Simone Inzaghi.
A Milano, in tempi non ancora sospetti, chi si era opposto a questa deriva dei capi ultrà era stato il solo capitan Paolo Maldini, che per questo venne fischiato, su istigazione degli stessi capi della Sud, nel giorno in cui la bandiera rossonera, a San Siro, dava il suo addio al calcio. A Roma il presidente discutibile e discusso Claudio Lotito nel suo ventennale al timone della Lazio ha intrapreso un’autentica battaglia senza esclusioni di colpo contro i fratelli e poi i nipotini di Diabolik non accettando alcun tipo di compromesso con loro sul piano del regolamento degli interessi commerciali. Questo a Lotito, dall’area più moderata degli ultrà della Curva Nord gli è valso il pittoresco appellativo di “Lotirchio”, mentre i boss in camicia nera del fronte per la liberalizzazione del bagarinaggio dei biglietti e degli utili da stadio lo hanno costretto a girare sotto scorta per le strade di Roma.
L’unica giustificazione delle società chiamate in causa dinanzi a queste accuse pesanti di “calcio connection” è che appunto si tratta di multinazionali e fondi azionari stranieri che quindi possono anche difendersi con un candido “I don’t know”. Ma le loro dirigenze sono zeppe di manager e maneggioni nostrani che conoscono bene le dinamiche del baratto perdurante con la malavita, e adesso, come certi politici ben allenati alla connivenza mafiosa, faranno la loro solita parte da italici piangenti davanti alla magistratura giurando e spergiurando di non essere mai stati lì, al telefono o a tavola con i capi, pardon i boss della Curva.