Vertice. Condizioni e controlli, Europa divisa. Intesa difficile, ma si tratta ancora
Angela Merkel discute con Emmanuel Macron e la premier finlandese Sanna Marin (a sinistra)
Dopo una prima giornata finita malissimo, ieri la seconda del vertice sul piano di ripresa sembrava partita decisamente meglio. Complici nuove proposte negoziali presentata al mattino dal presidente del Consiglio Europeo Charles Michel per spezzare il nodo dell’unanimità reclamata dal premier olandese Mark Rutte per gli esborsi. Poi, però, le posizioni sono tornate a irrigidirsi. Il tutto con una ridda di riunioni a due, tre, quattro, in mattinata tra Michel, Giuseppe Conte, Rutte, la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese Emmanuel Macron, il premier spagnolo Pedro Sanchez. Poi, dopo la plenaria, una riunione allargata anche agli altri Frugali (oltre all’Olanda Austria, Danimarca e Svezia), poi una tra Michel e solo Macron e Merkel, quindi con l’ungherese Viktor Orbán e altre ancora.
Quella della mattina era apparsa la possibile quadra. Michel, per accontentare i quattro Frugali (che chiedono più prestiti e meno sovvenzioni), lasciava fermo a 750 miliardi il totale degli aiuti (e anche i 1.074 miliardi per il bilancio 2021-27), ma passando da 500 miliardi di trasferimenti e 250 di prestiti a 450+300. Con qualche trucco: ad esempio le sovvenzioni della Facility per il rilancio aumentano da 310 a 325 miliardi. In compenso tagli in altri «reparti» delle sovvenzioni, ad esempio dimezzando i fondi per gli investimenti, eliminando la ricapitalizzazione delle imprese, sforbiciando lo sviluppo rurale o Horizon (per ricerca e sviluppo e altri).
Non solo: Michel aveva proposto una modifica al «freno di emergenza» venerdì sera: anche un solo Paese (anziché un numero X di Stati) poteva sollevare obiezioni al pagamento di una tranche di aiuti, passando la parola al Consiglio Europeo (i leader) o all’Ecofin (i ministri delle Finanze). Versamenti bloccati fino a che la materia non sia stata «affrontata in modo soddisfacente» - formulazione vaga. Il tutto condito con vari «zuccherini», come l’aumento degli sconti sui contributi a Svezia, Danimarca, Austria, ma anche vari incrementi di fondi per Paesi come Spagna, Portogallo, Francia, Belgio. E un ulteriore ritocco ai criteri di allocazione (il 60%, anziché il 70% entro il 2022 con i criteri della Commissione, e cioè i dati economici 2015-2019, favorevoli a Italia e Spagna, e il restante 40%, anziché il 30%, sui dati del 2021-2022).
Sia l’Olanda, sia l’Austria hanno parlato di «giusta direzione». Solo che evidentemente non è bastato. Italia e Spagna paventano il rischio di un veto per la «porta di servizio», Roma ha presentato una controproposta: se un Paese ha dubbi, si passa al Consiglio Europeo o all’Ecofin che decidono a maggioranza super rafforzata, consentendo però agli Stati membri, o allo Stato, rimasti in minoranza di chiedere una nuova riunione dei leader (non è chiaro però che cosa succede a quel punto). L’Olanda non ha gradito, del resto i Frugali e la Finlandia hanno anche avanzato richieste di tagli proibitive: ridurre le sovvenzioni della Facility da 325 a 155 miliardi, e cassando tutto il resto. Tradotto: i trasferimenti cassati per i due terzi.
Anche l’Est ha dato filo da torcere. La Polonia respinge gli obiettivi di riduzione delle emissioni tra i criteri di assegnazione dei fondi, ma il più complicato è stato, al solito, Orbán, che rifiuta il benché minimo riferimento al rispetto dello Stato di diritto per l’erogazione dei fondi, accettando solo il riferimento a «irregolarità» e pretendendo che lo stop all’erogazione sia all’unanimità anziché, come propone Michel, a maggioranza qualificata. Posizione inaccettabile per Olanda e nordici. Insomma, come ha detto il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, «ancora molto lavoro da fare. Non so se finiremo stasera (ieri ndr), domani (oggi nrd) o servirà un altro vertice».