Torino, la confessione di Said. Ucciso «perché era felice». La tragedia dei Murazzi
Alcune immagini di Stefano Leo poste nel luogo dell'omicidio ai Murazzi del Po, Torino (Ansa)
C’erano due ragazzi. Il 23 febbraio scorso camminavano lungo il Po dei Murazzi, a Torino. Non si erano mai visti. Uno, Said Machaouat, 27 anni, nato in Marocco, cittadino italiano, era da poco tornato dal suo paese d’origine. Anche l’altro, Stefano Leo, biellese, 32 anni, era reduce da un lungo soggiorno in Australia. Due estranei che si venivano incontro lungo il Po. Stefano si godeva la prima aria di primavera. Lavorava come commesso, aveva tanti amici e una famiglia. Aveva la faccia di un uomo giovane e contento.
Said invece era colmo di rabbia e di dolore. Fino a qualche mese prima aveva una donna, un figlio, un lavoro come cameriere. Lei lo aveva abbandonato e il mondo di Said era di colpo franato: perso il lavoro, persa la casa, da gennaio dormiva fra i senzatetto, mangiava alle mense dei poveri. Quel crollo aveva sconvolto in lui qualcosa di profondo. Sentiva delle voci, sentiva crescersi dentro una sconosciuta ferocia. Quel mattino aveva comprato dei coltelli, e aveva tenuto nel giubbotto il più affilato. E camminava, osservando chi gli veniva incontro. Non sapeva chi cercava, e nemmeno perché. Ma quando si trovò davanti il ragazzo dal passo sportivo e la faccia sorridente, seppe di avere scelto.
La mano d’improvviso afferra il coltello e colpisce alla gola. È un istante. La vittima, attonita, fa qualche passo per chiedere aiuto, e crolla a terra. L’assassino fugge. Stefano Leo muore lasciando famiglia e amici increduli: perché mai lui? Forse, al momento, nemmeno Said lo sapeva. Aveva nascosto il coltello, nel dubbio di volerlo usare ancora. Girava come un randagio tra mense e notti all’addiaccio, inseguito dalle voci, dentro. Finché domenica si è consegnato ai Carabinieri. Un barlume di lucidità: «Ho capito che potevo farlo ancora».
Ma perché quello sconosciuto, gli hanno chiesto. «Perché aveva un’aria felice. Non sopportavo quell’aria felice. Volevo togliergli tutte le sue promesse, la sua famiglia, i suoi parenti».
Una motivazione da brividi, ha detto il procuratore capo di Torino Paolo Borgna, scosso dall’omicidio per caso di un cittadino tranquillo. Solo perché sembrava felice. E quella felicità ha aizzato la rabbia di un 'drop out', di un espulso dalla vita: prima la compagna, poi il figlio, il lavoro, la casa. E parallelamente, le voci: la malattia che alza la testa e si fa forte nella desolazione dei dormitori, nei 'no' a ogni richiesta di lavoro, nelle porte tutte chiuse. Non ha nessuno a Torino, Said, nemmeno la madre. La sua è una storia di disperazione che esplode come una bomba, e uccide un innocente che passava per caso. Soltanto perché sorrideva.
Crediamo, nelle nostre città, di vivere ciascuno per sé. Ci ignoriamo, nemmeno nella ressa del metrò ci guardiamo negli occhi, intenti come siamo sul cellulare. Evitiamo le strade buie e i quartieri a rischio, chiudiamo la sera con tre mandate la porta blindata di casa, e ci sentiamo quasi tranquilli. Crediamo di esser salvi. Poi un ragazzo sul Po un sabato mattina viene ammazzato così. La bomba dell’odio è esplosa su di lui. Poteva accadere a ognuno di noi.
Nessuno è un’isola, ci dice la tragedia dei Murazzi. Il male, la follia, l’indifferenza, la mancanza di qualsiasi mano amica possono disfare gli uomini, annichilirli e farne un deserto, in cui voci oscure prendono il comando. Accade più spesso in tempi di crisi e affetti deboli, in tempi di migrazioni che sradicano. Anche se Said avrebbe potuto venire da una famiglia italiana. Quanti italiani oggi dormono sotto i portici delle nostre città, dopo aver perduto tutto. C’è chi chiede aiuto, chi affonda nell’alcol, e chi è catturato dalla mano adunca del rancore. Di una livida invidia: fino a cercare la faccia di un uomo felice, per trascinarla nel proprio abisso.
Una infinita pietà per il ragazzo felice dei Murazzi. E un po’ anche per l’altro, il fallito, il reietto solo con le sue voci nemiche, che ha scelto per la sua vendetta un innocente. Drammatica riprova che davvero nessuno vive per sé solo, ma tutti siamo insieme, nelle nostre città distratte e inospitali. Il male cammina per le strade e può legare misteriosamente vite fra loro ignote, può esplodere come una mina sotto ai piedi di un bambino. Solo una larga reciproca misericordia, una concreta carità potrebbero proteggerci dall’odio che cova, in silenzio. Forse dovremmo anche noi guardare più attentamente le facce degli altri. E almeno pregare, per il buio di certi occhi. Come per un fratello: giacché questo siamo veramente.