Colombia. Volontario italiano morto, indagati 4 poliziotti. Tutti i misteri da chiarire
Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio alla commemorazione di Mario Paciolla, il cooperante in missione Onu morto in Colombia, Napoli, 30 luglio 2020
Mario Paciolla è tornato a Napoli. Non, però, per bagnarsi in quelle acque come desiderava tanto. Il corpo del volontario Onu 33enne, trovato impiccato a San Vicente del Caguán, in Colombia, dove lavorava dal 2018, è stato sepolto domenica, al termine di una celebrazione strettamente privata. In quelle stesse ore, i media colombiani riportavano nuovi dettagli i quali infittiscono ancor più il mistero sulla morte del giovane che, in un primo tempo, le autorità locali avevano accreditato come suicidio.
Secondo El Espectador, il principale quotidiano di Bogotà, quattro agenti della polizia militare sono finiti sotto inchiesta con l’accusa di aver ostacolato le indagini sul volontario delle Nazioni Unite. A far scattare le indagini – scrive la giornalista Claudia Julieta Duque, amica personale di Paciolla – l’aver permesso a un’unità dell’Onu di prelevare alcuni oggetti personali del napoletano, il giorno dopo il ritrovamento del suo corpo.
Contattata da Avvenire, la Procura, a cui carico sarebbe l’investigazione, ha spiegato di trovarsi nella fase di indagine e di non poter confermare la notizia né dare alcun altro dettaglio per non compromettere i risultati. La polizia militare, invece, ha negato, dichiarando che, a livello ufficiale, non esiste nessuna indagine nei confronti di propri agenti.
Da parte sua l’Onu, per bocca del portavoce Farhan Haq, ha garantito piena collaborazione per chiarire le cause della morte. «Abbiamo assicurato al governo italiano la nostra cooperazione su qualsiasi richiesta nasca dalle indagine che possono essere intraprese in Italia».
Al di là dei rapporti tra il volontario e l’organizzazione – su cui si concentra la stampa colombiana dopo che la madre, Anna Motta, ha parlato di alcuni dissapori – c’è un’altra questione cruciale per avere quella «verità e giustizia» più volte chiesta con coraggio dai familiari e rilanciata dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Il lavoro di Paciolla per la pace, nell’ambito del meccanismo delle Nazioni Unite incaricato di monitorare l’implementazione dell’accordo del 2016, era di certo scomodo per tanti, confermano fonti locali. Specie in una zona difficile come San Vicente del Caguán, porta d’entrata all’Amazzonia colombiana e importante centro di produzione della coca.
Il volontario, in particolare, seguiva il processo di reintegrazione e socirezza degli ex guerriglieri delle Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc), concentrati nei due spazi territoriali della zona, Miravalle e Yarí. Un percorso complesso. Da una parte c’è la lentezza con cui, dal governo, partono i progetti per il reinserimento sociale degli ex combattenti. Dall’altra la minaccia di altri gruppi illegali ansiosi di occupare il vuoto lasciato dalle Farc. Sono questi ultimi, in particolare gli eredi dei vecchi paramilitari di ultradestra tra i principali responsabili della strage di ex gueriglieri: dalla firma della pace ne sono stati assassinati 210.
Proprio le difficoltà nell’implementazione del trattato e l’aumento della violenza, sono stati all’origine del ritorno alle armi di una parte delle Farc, quasi un anno fa. Il Caquetá, dove si trova San Vicente del Caguán, è uno dei bastioni della dissidenza. Tra quanti hanno imbracciato i fucili c’è anche l’ex capo di Miravalle, Hernán Darío Hernández, alias El Paisa, diventato uno degli esponenti di spicco della rivolta. Le cui fila, nell’ultimo periodo, si stanno drammaticamente ingrossando. In questa frontiera calda ha scelto di operare Mario Paciolla che, gli amici colombiani, descrivono come un appassionato della causa della pace. Quella pace che tanti hanno l’interesse di mandare in frantumi.