Attualità

Dopo il voto. Tutte le strade per un nuovo governo. Numeri complicati, il Pd è centrale

Marco Iasevoli mercoledì 7 marzo 2018

Il presidente della Repubblica Mattarella in una foto Ansa

Quando la politica ha poche ragioni, s’impone la matematica. Ora che il Parlamento è quasi definito, le somme aritmetiche diventano il punto di partenza di ogni ragionamento. Il centrodestra e M5s, da soli, non vanno da nessuna parte. L’alleanza Berlusconi-Salvini-Meloni non va oltre quota 260 alla Camera e 135 al Senato, a chilometri di distanza dalle maggioranza richieste (316 a Montecitorio, 161 a Palazzo Madama). Il partito di Di Maio è ancora più lontano dal traguardo con i suoi 221 deputati e 112 senatori. Incenerite dagli italiani le larghe intese Fi-Pd, ora servono accordi che stanno in piedi nei numeri e, almeno un po’, politicamente. Insomma, per avere un governo, bisogna, in un modo o nell’altro, «scongelare» il Pd. E sperare nell’effetto Transatlantico, in quel moto di orgoglio e umano appagamento che invade il parlamentare - specie se neoeletto - che entra nei Palazzi e medita, prima tra sé e sé e poi in piccoli drappelli: ma vale la pena tornare subito al voto?

CHI VUOLE DAVVERO UN GOVERNO? LE MANOVRE NEI PARTITI

Salvini e Di Maio vedono dinanzi ai loro occhi l’occasione della vita. Entrambi, con ragioni legittime, reclamano il mandato del capo dello Stato. Potrebbero stare insieme, i numeri dicono di sì, ma ci sono problemi non da poco da superare. Quanta Lega storica vuole abbandonare l’alveo del centrodestra? E quanti pentastellati che vengono da sinistra avrebbero da ridire. Il successo elettorale è una coperta sopra divisioni interne profonde. Così si spiega la linea ufficiale tenuta sinora dai due giovani leader. «Centrodestra più responsabili», ripete Salvini sin dal mattino del 5 marzo. «Aperti a tutti», insiste Di Maio per smentire voci circa preferenze del Movimento verso l’una o l’altra parte politica. Posizioni che verranno mantenute a lungo, cristallizzando il quadro politico nelle prossime settimane e sino alla conclusione delle prime consultazioni al Colle. Paradossalmente, insomma, Salvini e Di Maio hanno in mano solo un pezzetto di stoffa della governabilità futura. Il resto del vestito ce l’ha quel Pd ridotto ai minimi termini dagli elettori. Il centrodestra con i dem è ampiamente autosufficiente in entrambe le Camere. Altrettanto, un filo in meno, l’intesa tra M5s e democratici.

TUTTE LE SOLUZIONI CHE 'TENTANO' IL PD

Nonostante la linea Renzi («Siamo all’opposizione, i vincitori si assumano le loro responsabilità»), il dibattito interno al Pd è nel vivo. Un’anima è emersa alla luce del sole: dialogare con M5s. Non per fare un governo, ma per consentire loro un esecutivo 'di minoranza' o con l’'appoggio esterno' su singoli punti concordati. Pare che Di Maio, su questa pista, stia lavorando sodo, mettendo un piedi un mini-programma con tagli ai costi della politica, una versione meno 'impattante' sui conti pubblici del reddito di cittadinanza per le fasce deboli, interventi su famiglia e imprese, investimenti pubblici fuori deficit ma senza spaventare l’Ue. Un abito cucito su misura per i dem, che darebbe modo al leader 5s di gridare tutto il suo sdegno in caso di rifiuto. Le minoranze del Pd sono dell’idea di mettere alla prova i grillini e si sono esposte vistosamente con Emiliano e in modo più felpato con Orlando. Ma l’altro pezzettone del partito, quello che non parla ancora, cosa pensa? Dietro alla reazione unanime di un Zanda o di un Cuperlo alle «dimissioni differite» di Renzi ci sono forse prospettive diverse. Gli 'istituzionali' del Partito democratico, al gioco della torre, sceglierebbero più il centrodestra che Di Maio. Purché, ragionano, sia il Colle a mettere questa prospettiva sul tavolo do- po aver esperito vari tentativi a vuoto. E purché, ovviamente, Salvini si 'moderi', si lasci un po’ indirizzare da Berlusconi che così tornerebbe regista e garante. Il leader del Carroccio ci sta riflettendo, ha iniziato ad abbassare i toni, a rassicurare l’Ue. Ma allo stesso tempo teme di restare logorato nella trama dell’ex Cav e dei piddini di lungo corso.

L’ULTIMO AZZARDO DI RENZI: VOTO A SETTEMBRE

La sua posizione il segretario dimissionario del Pd l’ha espressa sin troppo chiaramente: portare i dem all’opposizione e costringere al dialogo Lega e M5S, sapendo che anche Fi si spaccherebbe tra salviniani e moderati. Una ricerca scientifica dello stallo prolungato che porterebbe, questa l’ipotesi, a far riflettere più a fondo gli italiani sulla credibilità dei nuovi leader. In vista di un voto anticipato? Per lanciare una fase alla Macron? Ipotesi esistenti ma obiettivamente deboli, nemmeno i collaboratori più stretti dell’ex premier hanno risposte solide. E se non c’è una strategia, il resto del Pd è pronto a togliergli il timone e, come primo, atto, abbassare il muro che divide i gruppi parlamentari dal sostegno a un esecutivo.