L a morte dopo uno sciopero della fame nella casa circondariale di Pavia del tunisino Sami Mbarka Ben Garci. La fine ancora oscura di Stefano Cucchi a Regina Coeli. Il suicidio di Diana Blefari Melazzi a Rebibbia. «Ci ricordiamo del carcere con i casi che fanno notizia, ovviamente» chiosa lo psichiatra Vittorino Andreoli, che del problema è un esperto: «Se sommassi tutto il tempo che ho passato nelle carceri italiane, sarebbe quello di una condanna robusta…».
Professore, dobbiamo abituarci alla morte in prigione? «Il carcere non può essere un luogo fatale. Certamente è un luogo di pena e lo deve essere. Ma in Italia abbiamo avuto una personalità come Cesare Beccaria che ci ha ricordato che la pena deve essere al contempo riabilitativa. Punizione ed educazione».
Realisticamente: è possibile recuperare autori di violenze efferate? «La mia risposta, decisa, è sì. In alcuni casi può essere molto difficile, ma mai si può dire che sia impossibile. Pensi a Gesù sulla croce. Il ladrone è un condannato alla pena di morte. Cristo gli dice 'oggi sarai con me in Paradiso' senza chiedergli cosa ha fatto, se ha rubato o se ha ammazzato sua madre. Io in carcere non ho mai trovato un mostro, ho sempre trovato un uomo che ha bisogno di aiuto».
Punizione e aiuto: cosa manca perché ciò avvenga? «Le carceri italiane non funzionano perché non sono né punitive, né rieducative. Vivono in una dimensione liquida, ambigua».
La punizione, visti anche i casi recenti, non sembra mancare. «Mi spiego. Un carcerato ha il diritto di cucinarsi da solo. Se è vegetariano ha il diritto di nutrirsi alla vegetariana. C’è un regolamento che garantisce a ogni cella una tv a colori. C’è una sensibilità di questo tipo… per una pena che dev’essere compatibile con la dieta vegetariana. Poi magari manca un’adeguata assistenza psicologica. Generalmente per ogni carcere ci sono uno o più psicologi convenzionati, che non fanno parte della struttura, che vanno lì qualche ora. Quindi, da una parte la sensibilità per la dieta vegetariana a cui uno ha diritto, dall’altra parte una persona che non riesce a vivere, non viene aiutato, ma lo si lascia crepare. Tra l’altro, a proposito di assistenza psicologica, mi lasci esprimere un desiderio rivolto alle diocesi e alle parrocchie»
Dica. «Oggi abbiamo un prete, come cappellano, per carcere. Ma con trecento detenuti può fare poco. In prigione c’è un enorme bisogno di incontri, relazioni… che bello se più preti potessero andarci, con un regolamento che lo permettesse, perché oggi per farlo devono rivolgersi al magistrato».
Qual è il tasso di violenza in carcere? «Alto, se lo consideriamo nei suoi diversi aspetti. C’è un problema di sovraffollamento: i posti sono 40mila per quasi 60mila detenuti, una situazione ingestibile. Poi c’è la violenza vera e propria. Fino a 15 o 20 anni fa uno che entrava avendo fatto del male ad un bambino veniva giustiziato, per una sorta di codice interno. E questo spesso accadeva con la complicità degli agenti di polizia penitenziaria. Oggi avviene molto meno. Però ci sono ancora carcerati che vengono picchiati».
Quanto incide la droga nel degrado generale? «Beh, com’è possibile chiamare carcere un luogo dove la droga gira più intensamente che in qualsiasi piazza d’Italia nota come luogo di spaccio? La droga è qualcosa che viene dato quasi per scontato. Gli interventi dei medici delle carceri per collassi o problemi legati agli stupefacenti sono frequentissimi ».
La situazione carceraria italiana è peggiore che altrove oppure no? «Diciamo che in una classifica dei Paesi cosiddetti civili siamo a un livello basso. Altrove la situazione è stata migliorata, pensi un po’, dando la gestione delle carceri ai privati. Ci sono esempi interessanti in Spagna e in Inghilterra».
Non è rischioso? « Le faccio solo un esempio, perché il discorso è complesso. Sa cosa costa un carcerato al giorno, mediamente? Poco meno di 500 euro. Un anno di galera fa su per giù 180mila euro. Vuole che con 180mila euro non ci sia la possibilità di attivare qualcosa che sia efficace e utile umanamente per chi sta scontando una condanna?».
Qualcuno ha giustificato lo sciopero della fame di un detenuto, anche se arriva alla morte. Cosa ne pensa? «È un diritto scioperare, ma non morire. Il digiuno può essere un mezzo per comunicare un bisogno, chiedere aiuto, ma non per suicidarsi. Non è possibile che una persona sia abbandonata, in questa sua richiesta, nella sua cella. Nessuno ha diritto di suicidarsi ».