Attualità

INTERVISTA. Andreoli: «Troppe morti in carcere Ambiguità e inefficienze»

Andrea Galli domenica 8 novembre 2009
L a morte dopo uno sciopero della fame nella casa circondariale di Pavia del tu­nisino Sami Mbarka Ben Garci. La fine ancora oscura di Stefano Cucchi a Regina Coeli. Il suicidio di Diana Blefari Melazzi a Rebibbia. «Ci ricordiamo del carcere con i casi che fanno notizia, ovviamente» chiosa lo psichiatra Vittorino Andreoli, che del pro­blema è un esperto: «Se sommassi tutto il tempo che ho passato nelle carceri italiane, sarebbe quello di una condanna robusta…». Professore, dobbiamo abituarci alla mor­te in prigione? «Il carcere non può essere un luogo fatale. Certamente è un luogo di pena e lo deve es­sere. Ma in Italia abbiamo avuto una per­sonalità come Cesare Beccaria che ci ha ri­cordato che la pena deve essere al contem­po riabilitativa. Punizione ed educazione». Realisticamente: è possibile recuperare au­tori di violenze efferate? «La mia risposta, decisa, è sì. In alcuni casi può essere molto difficile, ma mai si può di­re che sia impossibile. Pensi a Gesù sulla croce. Il ladrone è un condannato alla pe­na di morte. Cristo gli dice 'oggi sarai con me in Paradiso' senza chiedergli cosa ha fatto, se ha rubato o se ha ammazzato sua madre. Io in carcere non ho mai trovato un mostro, ho sempre trovato un uomo che ha bisogno di aiuto». Punizione e aiuto: cosa manca perché ciò avvenga? «Le carceri italiane non funzionano perché non sono né punitive, né rieducative. Vivo­no in una dimensione liquida, ambigua». La punizione, visti anche i casi recenti, non sembra mancare. «Mi spiego. Un carcerato ha il diritto di cu­cinarsi da solo. Se è vegetariano ha il dirit­to di nutrirsi alla vegetariana. C’è un rego­lamento che garantisce a ogni cella una tv a colori. C’è una sensibilità di questo tipo… per una pena che dev’essere compatibile con la dieta vegetariana. Poi magari manca un’adeguata assistenza psicologica. Gene­ralmente per ogni carcere ci sono uno o più psicologi convenzionati, che non fanno parte della struttura, che vanno lì qualche ora. Quindi, da una parte la sensibilità per la die­ta vegetariana a cui uno ha diritto, dall’al­tra parte una persona che non riesce a vi­vere, non viene aiutato, ma lo si lascia cre­pare. Tra l’altro, a proposito di assistenza psicologica, mi lasci esprimere un deside­rio rivolto alle diocesi e alle parrocchie» Dica. «Oggi abbiamo un prete, come cappellano, per carcere. Ma con trecento detenuti può fare poco. In prigione c’è un enorme biso­gno di incontri, relazioni… che bello se più preti potessero andarci, con un regolamen­to che lo permettesse, perché oggi per far­lo devono rivolgersi al magistrato». Qual è il tasso di violenza in carcere? «Alto, se lo consideriamo nei suoi diversi a­spetti. C’è un problema di sovraffollamen­to: i posti sono 40mila per quasi 60mila de­tenuti, una situazione ingestibile. Poi c’è la violenza vera e propria. Fino a 15 o 20 anni fa uno che entrava avendo fatto del male ad un bambino veniva giustiziato, per una sor­ta di codice interno. E questo spesso acca­deva con la complicità degli agenti di poli­zia penitenziaria. Oggi avviene molto me­no. Però ci sono ancora carcerati che ven­gono picchiati». Quanto incide la droga nel degrado gene­rale? «Beh, com’è possibile chiamare carcere un luogo dove la droga gira più intensamente che in qualsiasi piazza d’Italia nota come luogo di spaccio? La droga è qualcosa che viene dato quasi per scontato. Gli interven­ti dei medici delle carceri per collassi o pro­blemi legati agli stupefacenti sono fre­quentissimi ». La situazione carceraria italiana è peggio­re che altrove oppure no? «Diciamo che in una classifica dei Paesi co­siddetti civili siamo a un livello basso. Al­trove la situazione è stata migliorata, pensi un po’, dando la gestione delle carceri ai pri­vati. Ci sono esempi interessanti in Spagna e in Inghilterra». Non è rischioso? « Le faccio solo un esempio, perché il di­scorso è complesso. Sa cosa costa un car­cerato al giorno, mediamente? Poco meno di 500 euro. Un anno di galera fa su per giù 180mila euro. Vuole che con 180mila euro non ci sia la possibilità di attivare qualcosa che sia efficace e utile umanamente per chi sta scontando una condanna?». Qualcuno ha giustificato lo sciopero della fame di un detenuto, anche se arriva alla morte. Cosa ne pensa? «È un diritto scioperare, ma non morire. Il digiuno può essere un mezzo per comuni­care un bisogno, chiedere aiuto, ma non per suicidarsi. Non è possibile che una perso­na sia abbandonata, in questa sua richie­sta, nella sua cella. Nessuno ha diritto di sui­cidarsi ».