Attualità

L'assassinio. Trent'anni di "buio" sul massacro di don Cesare Boschin

Pino Ciociola sabato 29 marzo 2025
La firma di don Cesare su un suo libro

La firma di don Cesare su un suo libro

Nel suo letto, incaprettato, ossa spaccate, tumefatto, nastro adesivo alla gola, la dentiera – accerterà poi l’autopsia – spinta in gola a pugni, che l’ha strozzato: 30 marzo 1995, trovano così don Cesare Boschin e non si troveranno mai più le sue due agendine. Però al polso ha l’orologio e nella tasca della tonaca, appesa alla porta, c’è il portafoglio con 700mila lire e dentro una scatola nell’armadio, neanche nascosta, 7 milioni in contanti. Le indagini, stranamente superficiali, veloci e senza logica, dureranno otto mesi scarsi, poi l’omicidio sarà liquidato come conseguenza di una… rapina. A nessuno verrà in mente, per esempio, d’esaminare i tabulati telefonici di don Cesare o di tener conto del testimone che quella notte, tornando a casa dopo esser stato con la fidanzata, verso le due vede tre uomini andarsene da lì senza dare nell’occhio. Qualcuno prova addirittura a buttarla su faccende gay oppure di pedofilia, depistaggi messi in giro ad arte, reggono poco o nulla. La gente che conosce don Cesare capisce invece subito: il suo massacro può avere un solo movente, la discarica vicina alla parrocchia di Borgo Montello (Latina), nata nel 1971. Quarta d’Italia per estensione e per quantità di rifiuti, compresi milioni di tonnellate di scarti tossici che non dovrebbero stare qui, soprattutto fusti o fanghi, invece ci marciscono da decenni.

Ha ottantuno anni, don Cesare. Cocciuto, poco estroverso, determinato. E malato terminale di cancro ai polmoni, ne ha ancora per qualche mese. «So quanto accade lì. Andrò a Roma e farò risolvere il problema», aveva confidato poco prima d’essere ammazzato a certi suoi parrocchiani (e poco dopo aver chiamato un politico assai influente proprio nella Capitale). La sera del 29 marzo alcuni di loro restano con lui fin quasi a mezzanotte, poi vanno via. Il prete non vorrebbe dormire da solo, non è affatto tranquillo, chiede a un confratello di rimanere, nelle ultime settimane sono arrivate strane telefonate, sono andati anche a trovarlo due signori che aveva dovuto far entrare, ma nemmeno invitato a sedersi e non era affatto sua abitudine.

Don Cesare lo trova la sua perpetua, Franca, che, molti anni dopo, non ha granché voglia di parlarne, però non ha dimenticato nulla. «Non so perché sia stato ucciso», mette in chiaro prima del resto. Nemmeno sa se avesse ricevuto minacce, però – dice - «avevo sentito dei rumori (in casa, ndr) una, due settimane prima, da sopra avevo chiesto se ci fosse qualcuno, sono andata giù a vedere, nessuno. Quei rumori ce li ho ancora in mente…».

La mattina in cui la donna trova il corpo del sacerdote «fa freddo, la notte c’era stato un vento tremendo. Verso le nove, passo sotto la sua casa, vedo le imposte ancora chiuse e penso “si sente male, non ce la fa ad alzarsi”. Il portoncino è semiaperto, immagino sia arrivata una signora anziana, Maria, che viene tutti i giorni. Lo chiudo, vado su, salgo una rampa di scale, arrivo al piccolo pianerottolo, poi prima dell’altra rampa, in cima, vedo due cassetti rovesciati a terra. Continuo e dietro una vetrata, quasi subito s’affaccia la cameretta di don Cesare, faccio un paio di passi dicendo “Don Ce’, ma che è successo stamattina?!” e lo trovo. Sul letto, in quel modo, uno choc, una paura, penso che potrebbe ancora esserci qualcuno, scappo via, corro a chiamare un vicino».

La donna nemmeno si rende subito conto ch’è morto: «La luce è spenta e le imposte appunto chiuse». Allora «torniamo su con il vicino, vedo bene il corpo di don Cesare, ha le mani legate con lo scotch, quello largo, da pacchi. Ha anche un asciugamano sporco di sangue sui piedi. Ci sono i suoi pantaloni a terra, vicino la porta». Altro: «Chi l’ha visto nudo ha raccontato che aveva dei lividi, che l’avevano menato». Riproviamo: è stato ucciso per la discarica? «Non lo so, questi discorsi con me non li faceva e quando c’era gente chiudeva la porta», ribatte la perpetua. Amen.

Il fatto è che don Cesare davvero sa «quanto accade» lì. Sa, per esempio, come la camorra controlli quel territorio e i casalesi lo gestiscano da un pezzo, il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone (cugino di Sandokan) spiegherà che il basso pontino era roba loro. Che negli anni Ottanta il “governatore” di Latina è Antonio Salzillo (morto ammazzato il 6 marzo 2009), nipote di Antonio Bardellino, fondatore del clan (morto nel 1988, corpo mai ritrovato). E che proprio Salzillo inizia a far seppellire nella discarica di Borgo Montello, «bidoni di rifiuti tossici, per ognuno dei quali prendeva cinquecentomila lire», racconta Schiavone.

Intanto, chiunque a Borgo Montello sa che nella discarica viene "sversato" di tutto. Nel 1995 l’Enea vi scopre, sotto terra, tre grandi ammassi metallici, due di 10 metri per 20, l’altro addirittura 50 per 50, sono tra 8 e 10 metri di profondità. L’ipotesi tornerà ad avanzarla l’allora Questore di Latina, Nicolò D’Angelo: «Da poliziotto, dico che quel che c’è sotto la discarica di Borgo Montello andrebbe monitorato approfonditamente...», spiega ai membri della Commissione parlamentare sulle ecomafie nel 2010.

Per dire, a metà anni Novanta un operaio licenziato dalla discarica racconta d’avere preso parte all’interramento, notturno, di molti fusti con sostanze tossiche, che sarebbero stati parte dei 10.500 stipati nella nave Zanoobia con le scorie tossiche di almeno 140 aziende chimiche europee. Nave che, dopo essere stata rifiutata dai porti di mezza Europa, nel 1988 attraccò infine a Ravenna. I fusti furono poi provvisoriamente spostati in un deposito dell’Emilia Romagna, però dopo non si seppe mai come, dove e quando furono smaltiti. «In discarica arrivavano camion proprio da quel posto dell’Emilia Romagna...», spiega Claudio Gatto, braccio destro di don Cesare per anni.

Il sacerdote tutto questo lo sa e non ne può più, pensa a quelli che vivono a Borgo Montello, teme per loro. Sa che nella discarica, specie di notte, arrivano camion a scaricare valanghe di rifiuti tossici: li vede dalle sue finestre. Sa che è appunto la camorra a tirarne le fila, sa che ci sono potenti coperture politiche dalla Capitale. Annota tutto, a penna, su quelle sue due agendine. Oltre tutto, il prete non ha mai fatto mistero di voler combattere quel traffico, come non è un mistero che il comitato dei cittadini contro la discarica abbia sede proprio nella parrocchia. A proposito, dopo l’assassinio di don Cesare, anche lo stesso comitato si scioglie nel giro di un paio di giorni… E Isabella Formica, nipote di don Cesare, ricorderà anni dopo che «nei giorni successivi all’omicidio di zio, ci furono colpi di pistola contro alcune abitazioni, credo per far paura a chi potesse avere visto o sentito qualcosa».

Roberto Mancini è il poliziotto che scopre il giro sporco di rifiuti tossici in Terra dei fuochi e in Italia, morirà di tumore per questo e gli daranno la Medaglia d’oro. Nella sua lunga informativa (239 pagine, frutto d’anni di indagini, datata dicembre 1996) annota meticolosamente «gli eventi verificatisi fra il 1988 e il 1996 in certi ambienti della provincia casertana e il loro ‘sbarco’ nel sistema finanziario e commerciale del basso Lazio». Eventi provati e provabili, Roberto conosce bene il suo mestiere. E si riferisce a «traffici così appetibili per la camorra» - sottolinea - perché «coniugano l’estrema remuneratività a una assicurata impunità».

Chi prova a indagare meglio su questa discarica e il massacro di don Cesare, è la Commissione parlamentare sulle ecomafie. Nella sua “Relazione finale sul ciclo dei rifiuti di Roma e fenomeni illeciti nel Lazio” (20 dicembre 2017), ad esempio, riporta quanto raccontato dal «testimone C»: nei primi anni Novanta, «tutti quelli che abitavano o lavoravano in zona, sapevano che i mezzi entravano in discarica e scaricavano dei fusti, bidoni da duecento litri in lamiera e altri in plastica, in mezzo ai rifiuti e che venivano mescolati e interrati coi mezzi della discarica».

Del resto, il 13 marzo 1996, sempre Carmine Schiavone racconta parecchie cose alla Polizia giudiziaria di Latina: «Il clan dei Casalesi da moltissimi anni ha avviato, nella provincia un'opera di infiltrazione e di investimento degli illeciti introiti comunque ricavati e a capo dell'organizzazione in terra pontina c’era Antonio Salzillo, nipote di Ernesto ed Antonio Bardellino». Poi si scatenò una guerra di camorra, i Bardellino furono spazzati via «e arrivammo noi». Schiavone spiega anche le modalità del gioco e quanto vale: «Mi diceva Salzillo, ai tempi in cui faceva ancora parte del nostro gruppo, che lui operava con la discarica di Borgo Montello» e lì «faceva occultare bidoni di rifiuti tossici o nocivi per ognuno dei quali mi diceva di prendere 500mila lire». Prezzo in linea col “mercato”: «Per distruggerli dovevano avere una attrezzatura speciale, per cui ci volevano due milioni e mezzo», cinque volte di più. Insomma, da queste parti va come nell’agro aversano, compreso l’accordo tra imprese, intermediari e casalesi, con pezzi di politica a fare da garante.

A proposito, a Borgo Montello vive Michele Coppola, uomo appunto dei casalesi sul suo conto, ancora in quella “Relazione finale”, la Commissione annota alcuni elementi. Primo, «il fattore incaricato dalla famiglia Schiavone per curare gli immobili acquistati a Borgo Montello è Michele Coppola». Secondo, dall’omicidio di don Cesare «gli investigatori esclusero completamente anche la pista della criminalità organizzata e «Coppola, residente all'epoca dei fatti a Borgo Montello, a ridosso della discarica, non è stato mai interessato dalle indagini, pur essendo già all'epoca un soggetto molto conosciuto nella zona ed essendo nota alla Polizia giudiziaria la detenzione di diverse armi da fuoco, fatto registrato nelle banche dati delle forze dell’ordine fin dagli anni '80». Anzi - si legge ancora nella Relazione -, neanche «il successivo arresto di Coppola nell'ambito dell'inchiesta sul clan dei casalesi “Spartacus”, il 5 dicembre 1995, spinse gli inquirenti ad approfondire un eventuale coinvolgimento del clan nell'omicidio». Terzo, «in quella fase delle indagini (dal 30 marzo al 21 ottobre 1995, generosamente definite dalla stessa Commissione «per alcuni aspetti lacunose», ndr), particolarmente attivo era il maresciallo della stazione carabinieri di Borgo Podgora, Antonio Menchella».

Torna in mente che è la Regione Lazio fra il 1990 e il 1993 a dare il via libera allo stoccaggio di rifiuti pericolosi e speciali a Borgo Montello, ma con provvedimenti irrituali, tanto che saranno oggetto per anni di contenziosi amministrativi. Torna in mente l’audizione in Commissione parlamentare rifiuti, di Michele Cester, ex direttore della discarica di Borgo Montello, che il 27 giugno 2012 inizia così: «Vorrei fare subito una precisazione. Sono diventato direttore della discarica nel 1997 e da allora sono arrivati soltanto rifiuti urbani e assimilabili agli urbani. Può darsi che esistesse un ‘cattivo andazzo’, perdonatemi l’espressione, da parte di alcuni operatori locali nel mischiare a rifiuti assimilabili agli urbani, anche rifiuti che non lo erano strettamente». Poi parla al più di «pressappochismo e disinvoltura» nelle gestioni precedenti. Dopo racconta: «Una delle persone che lavorava in discarica mi ha detto che era cugino alla lontana di ‘Sandokan’. Gli ho detto che non capivo se fosse una presa in giro, una vanteria stupida o cos’altro, ma comunque non gli ho dato alcun peso».

E chissà perché, torna anche in mente una vecchia informativa della Polizia, che risale agli anni Novanta. Gli agenti pedinano un avvocato, ch’è uno dei più grossi broker italiani dei rifiuti (più o meno puliti…), lo seguono in lungo e largo per mezza Italia. Una mattina è a Roma, in compagnia di un socio, scendono da un taxi alle 11,40 in via della Scrofa, due passi da Montecitorio e da Palazzo Madama. Aspettano dieci minuti e arriva un terzo uomo: «Si salutano con familiarità» - annota la Polizia nell’informativa – poi, a piedi, «si recano in piazza Campo Marzio ed entrano nella Camera dei deputati». Ma la grossa, vera, sorpresa arriva dopo: alle 14,05, l’avvocato e il socio «escono (dalla Camera, ndr) e si recano nuovamente in via della Scrofa, entrando in un ristorante», di cui riportano nome e numero civico. Pochi minuti e «sopraggiunge prima un ministro, seguito di lì a poco da un altro ministro», i poliziotti quasi non credono ai loro occhi. Restano fuori e meno di un’ora vi entrano, «mossi dalla curiosità - scrivono loro stessi – e anche per verificare se i personaggi sotto controllo si fossero uniti ai parlamentari». Girano all’interno con discrezione, fingendo di scegliere un tavolo. Niente: «Nei vari locali del ristorante i personaggi non sono stati notati». Però «una saletta riporta la scritta evidente “Riservato” e si è ipotizzato pertanto che tutti l’abbiano occupata». Però impossibile sapere cosa stiano dicendosi. Alle 15,30 l’avvocato e il socio «escono e salgono a bordo di un taxi, a bordo del quale si allontanano». I ministri? Se ne vanno un quarto d’ora più tardi: «Alle 15,45 esce il primo e immediatamente dopo anche il secondo», annotano infine i poliziotti. Aggiungendo che il loro servizio di pedinamento quel giorno finisce alle 16 e che «sono state fotografate le persone che si sono incontrate, all’infuori dei ministri».

Ma torniamo a Borgo Montello e Latina. Un altro prete, da quelle parti e in quegli anni, se la passa niente bene: don Marco Schrott, in quegli anni parroco anche lui, a una decina di chilometri da Borgo Montello. «Nella prima settimana – racconta - mi affrontarono in tre con serie minacce, “Se non stai con noi, meglio che fai le valigie, perché ti facciamo piangere”, mi dissero con accento molto meridionale. Poi proseguirono persecuzioni mediatiche per molti anni, fino a un assalto in casa e poi un attentato alla mia vita in piena regola, poco prima che venisse trovato torturato e morto don Cesare Boschin, parroco e amico. Ci eravamo interessati di rifiuti da molti anni, ma non ci eravamo mai confrontati». Il vescovo «non cedette alle richieste insistenti dei boss di trasferirmi», però «l’uccisione di don Cesare mi fece capire che avrei potuto fare la stessa fine». Nel frattempo, scoprono diverse cose: per esempio che «enormi somme venivano addebitate alla cittadinanza per la spedizione dei rifiuti in Puglia, mentre venivano scaricati a pochi chilometri».

Don Luigi Ciotti nel 2005 va a Borgo Montello per commemorare don Cesare, vittima di mafia, e chiedere si riaprano le indagini. Che, a dirla tutta, ogni tanto vengono pure riaperte, come nel 2016, solo che nel 2001 il Tribunale di Latina aveva ordinato di distruggere i reperti dell’assassinio e il caso viene ancora archiviato: i familiari di don Cesare si oppongono, ma senza reperti la faccenda è praticamente chiusa. E domani saranno trent’anni dall’assassinio di don Cesare Boschin, parroco di Borgo Montello, Latina.