Editoriale. Tra relazione e comunione. La prossimità che ci fa umani
«Gli ammalati, i fragili, i poveri sono nel cuore della Chiesa». Le parole del messaggio che il papa Francesco ha diffuso per la prossima Giornata mondiale del malato danno spessore teologico a una parola umana che già sta nel profondo dei nostri istinti, desideri, bisogni: la cura. Se gli etologi inquadrano il sapiens nella stessa biosfera dove la vita e la morte sono in perenne duello, i viventi in lotta per la sopravvivenza, dura e spietata, incontrano e decifrano caratteri “umani” proprio nella specialissima relazione che li fa capaci di pietas, di attenzione, di compassione, di tenerezza. E dunque, in una parola, di cura. Fino all’ultimo: fin oltre l’ultimo congedo, se la pietà di consegnare alla terra (humare) la spoglia di una vita conclusa ha la stessa radice di humanitas.
Singolare, questa relazione. Non solo perché vita nasce da vita, e si alimenta di vita in nutrimento e accudimento, e s’intreccia e coniuga con la vita in comunione feconda, e si aduna e si parla e collabora e costruisce il villaggio. Non solo. C’è ancora un desiderio che brucia le distanze e ha in sé stesso qualcosa di fusionale, di partecipe, come le voci d’un coro. Senza compenso e senza prezzo, se non di gioia. E si chiama cura.
Viene in mente la canzone di Battiato che dice: «Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto», e poi «supererò (...) lo spazio e la luce per non farti invecchiare». Il tempo, si sa, scolorerà i capelli, la vecchiaia verrà; ma resta l’immagine di qualcosa di eterno in quella tenerezza: la cura è l’istantanea di una relazione senza tempo. Siamo soliti pensare alle “relazioni d’aiuto”, alla loro funzione, ai supporti, agli obiettivi, ai risultati. La cura è anche questo, ma è qualcosa di più essenziale nella sua radice intima: è presenza, prossimità, comunione.
Il luogo dove più spesso parliamo di cura è la salute. Teniamo gli ospedali come “case di cura”. Luoghi dove si cura – come si dice – il cancro, l’infarto o la polmonite e il resto; e dove ci si arrende ai mali “incurabili”. Siamo abituati o tentati di considerare l’arte medica come la lotta ai patogeni, germi batteri virus, che dentro il corpo stanno demolendo le difese, e contro i quali la farmacopea, la chirurgia, i trapianti e tutto il resto, fino ai presidi di sostegno vitale, ingaggiano il duello. Ma in realtà non è questo l’oggetto della cura: è il soggetto umano, il paziente, l’assistito (ad-sistere vuol dire stare lì, stare vicino), protagonista dell’alleanza terapeutica. Forse inguaribile, a volte; mai incurabile.
La medicina non è l’unico campo della cura, che è grande come è grande la vita. Torniamo alla relazione, e a quell’ultima parola che ne rivela l’essenza, “comunione”. Parola che scioglie la paura del buio come lama di luce, quando il buio si chiama solitudine e si consuma in dolore, come un castigo esistenziale. C’è nella solitudine un sentore di abbandono, di esclusione, di espulsione, di caduta in oblio. L’esperienza di un esilio, vissuta dai poveri, dai fragili, dagli scarti, che è malattia dell’anima e che può mutarsi in quella che Kierkegaard chiamò «la malattia mortale», la perdita della speranza. Così l’umana sollecitudine non può fermarsi alle piaghe del corpo, al rimedio dello stento, al sostegno della fragilità, ma raggiungere ciò che dentro quel corpo sente e pena, e sa gioire d’un amore accolto, e soffrire d’una tenerezza negata.
Vivere è fiorire, curare è far fiorire la vita. Viene il tempo che sfiorisce e declina, a volte fra spine e sconforto, fino all’appuntamento con quel mistero che è la soglia della morte e dell’Oltre. A volte si fa strada un pensiero di farla finita prima, assecondato da suggestioni esterne di pensiero suicida come libertà. Quanto sia più necessaria la cura, nel senso autentico che s’è detto, trova eco nell’iniziativa denominata “Care Day” che si svolgerà il prossimo 18 gennaio in nove Regioni, con decine di contributi di studiosi, per dar sostegno alle cure palliative, che permettano a tutti il diritto di non soffrire.
Forse è proprio nel “momento della verità” che la cura affronta la sua più radicale essenza, l’accompagnamento, il lenimento del dolore, il conforto e la consolazione; fino a quell’incontro sconosciuto ai viventi e svelato a chi muore. Non la fuga nel suicidio, che taluni tendono a inserire, con tragico paradosso nell’orizzonte della sanità. Ci può essere dunque un risveglio di fraternità, in questi giorni. Un recupero di humanitas, di reciproca cura. E un po’ di voglia di volerci bene.