Reportage. Tra i villaggi dell'Africa: «Il futuro è qui»
Nella piccola piazza di Catiò partenze e arrivi sono una regola. Succede soprattutto al mattino presto e alla sera, in questo piccolo centro nel sud della Guinea Bissau. Donne con i bambini, molti adolescenti e qualche adulto prendono normalmente la via dei villaggi, sparpagliati intorno alla chiesa costruita prima dell’Indipendenza dai portoghesi e ora sotto la guida pastorale dei missionari del Pime, il Pontificio istituto missioni estere, presente nel Paese da ben settant’anni.
La differenza tra chi parte, chi arriva e chi resta è molto sottile. In realtà, in Africa ci si sposta sempre. Per necessità, innanzitutto. Per fame, per procurarsi da vivere, per uscire dalle tabanke, i villaggi locali, e andare a scuola o raggiungere un centro di salute. Soltanto dopo tutto questo, si può parlare delle ragioni che conducono alla migrazione, a quello che consideriamo l’inizio del "grande viaggio" attraverso campagne, città, deserto e infine mare: è la rotta percorsa dai figli d’Africa verso le nostre coste. Ma è solo l’ultimo atto ed è precluso a tanti.
Talvolta, e con sorprendente frequenza, ci si muove per fede. Alla Messa serale di Catiò è arrivato un gruppo di giovani con la veste bianca: hanno appena ricevuto il Battesimo e adesso, per una settimana, si sono impegnati a partecipare all’Eucarestia tutti i giorni. Vederli uscire dalle case, dalle vie nascoste di questo paese apre il cuore e incoraggia a seguirli: hanno tra i 15 e i 30 anni e stanno scoprendo l’esistenza del Vangelo grazie all’incontro con i missionari e al passaparola tra coetanei. L’omelia è l’occasione per riprendere i passi compiuti nel cammino di iniziazione cristiana, durato ben sei anni, e per entrare nel mistero, la "mistagogia", per inserirsi appieno nella comunità cristiana.
«Chiediamo loro una fedeltà esigente e per questo è sorprendente vedere l’entusiasmo e l’impegno con cui accettano di mettersi in gioco» spiega padre Fabio Motta, parroco di Catiò, che celebra insieme a padre Maurizio Fioravanti, memoria storica di queste terre, presente in Guinea dalla proclamazione unilaterale di Indipendenza nel 1973.
Marciano ha 25 anni, insegna in un liceo e ha studiato anche in Camerun. «Mi chiedi se conosco qualcuno che è partito per l’Europa? Certo. Chi riesce a mettere da parte una buona somma, magari facendosela prestare, parte con tutti i mezzi possibili: camion, pullman, auto. Lo fa perché qui non trova lavoro e non vede futuro. Eppure siamo in tanti a restare, perché sogniamo un futuro diverso qui». Al mercato locale, poco distante, le attività sono gestite soprattutto da commercianti stranieri dei Paesi vicini. Mokhtar è un musulmano della Guinea Conakry, a Catiò vende prodotti alimentari e spiega che «è vero, chi si mette in viaggio sogna di arrivare in Italia, più ancora in Francia o Inghilterra. Ma non è così semplice».
Tra le righe di questi discorsi si intuisce il nodo mai sciolto del drammatico ritardo africano, un mix di cronica instabilità politica, cattiva eredità coloniale, corruzione e clientelismo delle nuove classi dirigenti. Ad essere penalizzati sono soprattutto i giovani e i giovanissimi. Per alcuni di loro, andare in Europa è come uscire dal buio, fare un salto verso il mondo per conquistare indipendenza e diventare adulti.
Stando ai dati resi noti dal ministero dell’Interno italiano a fine giugno 2017, sono stati ben 7.040 i guineani (in maggioranza della Guinea Conakry) sbarcati in Italia, su un totale di oltre 73mila e merita da sempre grande attenzione, secondo le organizzazioni internazionali, il fenomeno dei minori non accompagnati scomparsi, provenienti proprio da queste zone.
«Come missionari del Pime, in accordo con la Chiesa locale, abbiamo deciso di investire sulla formazione integrale delle persone, sulla scuola, su programmi di sviluppo e di assistenza sanitaria dal basso» spiega padre Alberto Zamberletti, superiore regionale dell’istituto. Basta spostarsi da Catiò a Bambadinca, su fino ai centri di Bafatà, São Domingos e Suzana, per rendersi conto di quanto l’opera concreta di tanti piccoli costruttori di pace abbia dato speranza alla popolazione locale. I campi di intervento sono infiniti: la lotta alla malnutrizione, la presa in carico di tanti drammi sociali, la realizzazione di chiese, ponti e centri per le comunità. Alla "Fiera delle possibilità" di Bambadinca, promossa dalla Caritas e sostenuta tra gli altri con finanziamenti dalla Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel, la Caritas tedesca e la Cei, l’impegno si è tradotto in decine di corsi per operatori locali nei settori dell’agricoltura e dello sviluppo sostenibile, che coinvolgono fino a 500 persone l’anno. L’obiettivo? «Permettere a chi frequenta queste formazioni – spiega Monica Canavesi, volontaria dell’Alp, l’Associazione laici Pime, responsabile della struttura – di trasferire ciò che si impara, successivamente, nei villaggi di provenienza».
Per chi rimane, infatti, la sfida è quella di dare un senso al futuro, trovare una prospettiva di vita dignitosa per sé e i propri figli. «La Chiesa in Guinea Bissau vuole difendere i poveri e la giustizia, creare legami e superare pregiudizi» sottolinea il vescovo di Bafatà, monsignor Pedro Carlos Zilli. In molti casi, come a Catiò, i rapporti tra le comunità religiose sono fondamentali, come dimostrano le buone relazioni tra cattolici e musulmani. In altri, riveste un ruolo centrale la capacità di mediare con le realtà istituzionali nazionali, dal Parlamento al governo. È un compito difficile, ma per questo piccolo pezzo d’Africa è anche l’unica strada possibile.
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