Il dibattito. «Tossicodipendenti fuori dal carcere». La proposta che divide le comunità
San Patrignano
Si torna a parlare di droga e di comunità, oltre che di carcere. E sarebbe una buona notizia, visto che il dibattito sulle dipendenze nel nostro Paese si era fermato agli esiti non esattamente incoraggianti della Conferenza nazionale convocata a Genova nel novembre del 2021 (tante promesse, pochi fatti) e quello sul carcere – gravato dalle emergenze sovraffollamento e suicidi – resta intrappolato nell’infinita disputa tra “punire” o “rieducare”.
Le dichiarazioni rilasciate in queste ore dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delma-stro, tuttavia, rischiano di aprire un nuovo, spinoso tavolo di confronto per il governo. La proposta, prima. Delmastro da Genova, dove è stato in visita al carcere di Marassi, ha spiegato in poche battute la sua idea per risolvere l’annoso problema del sovraffollamento, legato alla presenza massiccia di detenuti tossicodipendenti dietro le sbarre: far «scontare la pena, entro certi limiti», non nelle carceri ma «presso le comunità di cura chiuse e protette» con l’obiettivo di dare a tutti «la possibilità di rieducarsi».
Un’idea argomentata poi in una serie di interviste rilasciate a tv e giornali: « Le carceri italiane sono ampiamente sovraffollate. Secondo gli ultimi dati, risalenti a febbraio, a fronte di una capienza regolare di 51.285, i detenuti sono 56.319. E di questi, stando alla relazione annuale al Parlamento, il 30% sono tossicodipendenti » ha ricordato il sottosegretario, osservando che «serve un cambio di prospettiva». «Sto lavorando a un provvedimento che immagina di coinvolgere il terzo settore, quelle comunità chiuse in stile Muccioli (il riferimento, piuttosto anacronistico a dire il vero, è a San Patrignano, ndr), per costruire un percorso alternativo alla detenzione» ha spiegato Delmastro. Dimenticando che San Patrignano, per dimensioni, ubicazione e organizzazione, nel mondo delle comunità nostrane resta un unicum. Ancora: «Sto limando i dettagli ma c’è totale condivisione. Il ministro Nordio è d’accordo. Però è un percorso da condividere con il Terzo settore, appunto – ha aggiunto –. E con le Regioni che hanno la delega alla Sanità e dovranno certificare le cooperative e controllarne la gestione. Con loro e con la magistratura di sorveglianza aprirò un tavolo di dialogo».
La proposta coglie il mondo delle comunità piuttosto di sorpresa: il dialogo col nuovo governo era partito bene, qualche settimana fa, con la notizia dell’affi-damento della delega per le Politiche antidroga ad Alfredo Mantovano, da sempre sensibile alle istanze degli operatori del Terzo settore impegnati sul fronte delle dipendenze (oltre che rigorosamente contrario alla legalizzazione della cannabis, posizione condivisa dalla maggior parte delle comunità). E nelle prime, più o meno informali interlocuzioni, di tutto si era parlato meno che dell’ipotesi di riversare detenuti nelle strutture. Anche perché la questione è complessa: le comunità già accolgono tossicodipendenti in pena alternativa, con percorsi dedicati che richiedono professionalità e controlli diversi rispetto a quelli previsti per gli altri ospiti. Percorsi spesso difficili da costruire proprio perché il pagamento delle rette è in carico alle casse delle Regioni, non esattamente traboccanti di soldi da destinare al capitolo dipendenze.
La reazione del mondo delle comunità è dunque controversa: «Ben venga – fanno sapere da San Patrignano, chiamata direttamente in causa –. Tutto ciò che fa uscire dal circuito carcerario le persone che hanno commesso dei reati in ragione del loro essere tossicodipendenti ci trova assolutamente d’accordo».
Ma c’è la perplessità che il sottosegretario non conosca esattamente, o sottovaluti, i nodi da sciogliere: quello delle rette innanzitutto (chi le pagherebbe? Il ministero della Giustizia o le Regioni tramite i malmessi Serd?); quello degli spazi (comunità chiuse, appunto, o integrate nel territorio?); quello dei destinatari (tutti i detenuti o solo quelli che possono avere accesso alle misure alternative?). «Bene l’aumento di queste ultime, ma le comunità non si trasformino in carceri private» avverte infatti il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) ricordando il motto «Educare, non punire» ma esprimendo forti perplessità. Tra le principali reti di cura delle dipendenze, con 40 anni di impegno, 300 realtà e 4mila persone in carico ogni anno, il Cnca ribadisce «la necessità di percorsi alternativi per l’uscita dal carcere» e «l’inutilità della detenzione per le persone con dipendenze», ma Caterina Pozzi, la presidente, ricorda che «a livello normativo sono già previsti percorsi alternativi, poco usati e non sufficientemente sostenuti. Siamo disponibili a ragionare su un’idea di superamento, in una logica di sistema basata su scelta e responsabilità. È tuttavia impensabile tornare ad un modello di comunità di alcune esperienze anni ‘80».
I dubbi sono condivisi dalla Federazione italiana delle comunità terapeutiche (Fict), che su circa 5.731 utenti accolti conta già su circa il 20% di utenza provenienti dal carcere, in pena alternativa: «Il carcere, come spesso diciamo, non recupera e non è il luogo ideale per risanare le persone – spiega il presidente Luciano Squillaci –. È giusto garantire percorsi educativi reali e in tal senso non rappresenta, a nostro avviso, una soluzione replicare regimi carcerari per quanto in strutture alternative o, peggio, ghettizzare persone con dipendenza con situazioni giudiziarie ». Insomma, trasformare le comunità in succursali delle carceri non appare la soluzione più efficace, anzi. Resta da capire se la posizione del sottosegretario sia realmente condivisa dal governo e in che modo. Le comunità ora invocano un tavolo di confronto subito: l’emergenza dipendenze – che affligge il Paese ben oltre le mura delle carceri – nel bene o nel male torna in agenda.