«Il Cara di Mineo è come un paese, e quindi possono avvenire furti, risse, omicidi come anche matrimoni, feste, nascite ed altri episodi positivi». A dichiararlo non è un’impavida associazione per i diritti umani, ma una nota della direzione del Centro per richiedenti asilo siciliano.Parole che arrivano proprio quando i barconi dei trafficanti (vedi l’articolo in alto) sono tornati a riprendere il mare e c’è ancora incertezza sulla gestione dei Centri di accoglienza.A Mineo non rendendosi conto dell’imprudenza, per la prima volta hanno ammesso ufficialmente – e implicitamente – che quando si ha a che fare con una comunità di quattromila persone, una delle più grandi d’Europa, certamente la più popolosa e costosa d’Italia, vigilare perché fatti del genere non avvengano è pressoché impossibile (compreso il suicidio di un giovane eritreo lo scorso 14 dicembre).Il villaggio per richiedenti asilo dell’entroterra etneo è la più importante azienda del territorio, con un giro d’affari che nel 2013 potrebbe perfino superare i 60 milioni di euro. Se dovesse chiudere decine di famiglie finirebbero sul lastrico. Da quelle parti nessuno offre 300 stipendi al mese. E poco importa se i contratti sono quasi sempre a termine e se poi il salto dalle coop alla politica (e viceversa) è uno sport tra i più praticati. Per dirla con il vescovo di Caltagirone, «ci saranno segni tangibili di cambiamento e miglioramento solo se gli immigrati – ha ammonito monsignor Calogero Peri – non saranno strumentalizzati e non rientreranno in giochi di forza o di interessi».Su quanto avviene nell’ampio perimetro dello sperduto «Villaggio degli Aranci» ci sono denunce e indagini. I gestori hanno però voluto smentire che nella struttura vi sia un giro di prostituzione che poi provocherebbe un numero piuttosto elevato di aborti volontari.
Avvenire è stato il primo giornale a indagare su queste voci, da cui è poi nata una inchiesta della procura di Caltagirone. Non dev’essere un caso se l’unica smentita finora non pervenuta è proprio quella degli investigatori.Attraverso un portavoce la direzione del Centro per richiedenti asilo ha invitato nei giorni scorsi la stampa a «non criminalizzare il Cara, i suoi operatori o la comunità che lì vive per singoli episodi che sono eventualmente da addebitare ai singoli responsabili». In effetti chi ha visitato il Cara di Mineo – pressoché inaccessibile ai giornalisti, che alle rare visite vengono guardati a vista con il pretesto della "sicurezza" – sa che la gran parte degli operatori ci mette più cuore di quanto lo stipendio ne pretenderebbe. E se non fosse per l’abnegazione di molti, il limbo dei richiedenti asilo sarebbe solo la snervante attesa di un «sì» o di un «no» dalla commissione (presto se ne aggiungeranno altre due) che deve esaminare le domande di asilo.Ognuno dei quattromila ospiti costa al contribuente 35 euro al giorno: 4 milioni e rotti al mese, 52 milioni all’anno. Poi bisogna pagare l’affitto di sei milioni annuali al costruttore parmense Pizzarotti, proprietario delle 403 villette, per non dire dei costi di sorveglianza, dell’assistenza sanitaria, dello smaltimento dei rifiuti, dell’energia e di tutto il resto. Ad andar bene sono 60 milioni all’anno. C’è poi l’assistenza legale, l’istruzione per i bambini, e mille altre attività grazie alle associazioni di volontariato. Fatti due conti, vuol dire che ogni rifugiato costa alle casse pubbliche almeno 1.200 euro al mese. Denaro speso senza che si riesca a investire su percorsi di vita duraturi. Al contrario di quanto non sono riusciti a fare in realtà più piccole, sempre alcune cooperative coinvolte nella gestione dello stesso Cara. Segno che il problema sono i numeri della struttura catanese, più che la buona volontà dei suoi generosi operatori. Ma a questo punto chi può assumersi il rischio di mandare a casa più di 300 lavoratori? «La storia ci ha superati - ha osservato il vescovo Peri – e i problemi sono diventati più grandi delle nostre regole».