Quando è nato lui, di anni l’Italia unita ne aveva poco più di cinquanta. I vecchi ricordavano il Risorgimento. I padri, di lì a poco sarebbero partiti per il fronte. E c’era anche il padre di Ersilio Tonini, fra i fanti al passaggio dei quali, il 24 maggio 1915, il Piave “mormorava”. È tutta un’altra Italia quella che emerge lentamente conversando con il cardinale, che quest’anno nella sua Ravenna compirà 97 anni. Tonini è nato a Centovera di San Giorgio Piacentino, vicino a quello che Guareschi chiamava “il grande fiume”, il 20 luglio 1914. Già la data di nascita ti mette soggezione. Quante cose quest’uomo anziano, fragile ha visto, ha vissuto, che tu non sai. I suoi anni coincidono quasi con un secolo di storia di questo Paese. L’Italia, pensi, nella sua memoria deve essere più concreta e carnale: non parole su un libro, ma facce, e destini. Eminenza, chiediamo, che cosa rappresenta per lei questo 17 marzo, nuova festa in un’Italia che sembra ancora incerta nel capirne il valore? «Rappresenta - risponde Tonini, parlando adagio - il diventare vero di un sogno: di ciò che è stato un sogno per generazioni di italiani. Oggi noi non riusciamo nemmeno a immaginare quanto sembrasse impossibile l’unità, dopo secoli di frammentazione e dominio straniero».Il sogno avverato di 150 anni fa e la faticosa costruzione, poi, di una nazione. Il fante Cesare Tonini, capobifolco della più grande cascina di Centovera, era un uomo pacato e mite. Tornò dal fronte con una promozione di cui quasi non fece parola. «Quel che capimmo noi figli era che aveva fatto semplicemente il suo dovere fino in fondo. “Patria”, era una parola che in casa nostra si pronunciava con intensità e rispetto. Non con l’accento che avrebbe poi sviluppato il fascismo, in cui si avvertiva un sapore di volontà di dominio, di aggressività; patria, era da noi una parola fiera, ma in pace. E - prosegue Tonini - vorrei dire che se ancora oggi in Italia abbiamo una opinione pubblica libera, libera, libera (ripete tre volte l’aggettivo), non lo dobbiamo ai dotti o agli studiosi, ma a una sapienza della gente semplice, del popolo, delle famiglie. Io provengo da quel mondo, io l’ho conosciuto».Un mondo attraversato dalle lotte politiche degli anni Venti, e in Emilia dal vento di sperate rivoluzioni. «Ma i contadini delle mie parti avevano fatto la guerra, quella vera, nelle trincee, e ne erano tornati ancora più concreti e più semplici. Mio padre mi diceva che era costata tanto, la vittoria; e che le smanie di rivoluzione erano solo fantasie. Aveva fatto solo la terza elementare, ma aveva una grande stima dell’istruzione. Mi diceva: “Verrà un giorno che anche i figli dei contadini studieranno e faranno la loro parte”. Era orgoglioso della mia voglia di imparare. La domenica pomeriggio mi prendeva in disparte, voleva essere lui a insegnarmi a leggere e a scrivere». Il 17 di marzo dunque per il cardinale è festa. Festa di “quella” Italia umile, concreta, benevola in cui è cresciuto. L’Italia di una limpida saggezza popolare, che le veniva dalla tradizione cristiana; che aveva come colonna la famiglia e gli affetti, custoditi e venerati. «C’era forte - dice Tonini l’idea di dovere dare l’esempio ai figli, di mostrare loro un bene. A casa nostra una delle parole più ricorrenti era “sentimenti”: e stava a intendere l’affezione alla casa, ai figli, al lavoro, a ciò che è giusto. Però la si pronunciava in dialetto, “sent...umeent” e detta così aveva più significato, era proprio ciò che sentivamo nel cuore, l’amore al padre, alla madre, alla nostra terra». Ascolti e cerchi di immaginare, di vedere “quella” Italia di cui Tonini è testimone. Ma, Eminenza, non puoi non domandare, l’Italia di cui lei parla, è certo che esista ancora? «Esiste ancora, anche se sembra quasi non avere voce. Esiste ancora il bene, e il nostro antico buon senso. I figli, nella grande maggioranza, amano ancora il padre e la madre, e questa è la prima cosa, sono le fondamenta. Lo so, si sente dai giornali un gran parlar male dell’Italia; ma se ci fa caso a parlare male sono quasi sempre i sapienti, i dotti, che si sentono in dovere di esprimere solo critiche. È sempre stato così, mi creda. Ma, sotto a queste parole, c’è ancora un’altra Italia, più semplice, di cui si può essere orgogliosi. Un Paese, anche, da tenere unito, nonostante tutte le sue differenze; da salvaguardare dalle spinte dei localismi». La fede, quanto peso ha avuto nel costruire l’Italia che lei ama? «La fede cristiana nell’Italia da cui io vengo era il respiro del popolo, e una grande ricchezza». (Lontane feste di paese attorno alle prime Comunioni dei bambini rivivono nei ricordi di Tonini; il parroco, la processione, la gente con i vestiti della domenica; anche questa, profonda Italia, da cui proveniamo). Poi, il cardinale racconta di quando, bambino, serviva da chierichetto, e un contadino fieramente ateo lo avvicinò: «Ragazzo, vorrai mica farti prete? Guarda che “quelli” lavorano solo per mantenere la loro bottega...». Sorride al ricordo delle grandi passioni della sua terra, per cui un vecchio ateo e un chierichetto di sei anni discutevano su Dio. Racconta ancora che in quarta elementare, per andare a scuola, faceva ogni mattina a piedi cinque chilometri; e in quinta di più, otto chilometri al giorno, così che suo padre gli regalò una bicicletta. Ti domandi di nuovo: è ancora, questo, lo stesso Paese? I nostri figli, che vanno a scuola con la cuffia dell’Ipod sulle orecchie, non farebbero mai otto chilometri a piedi, al mattino, per una scuola che a loro sembra più un onere che un onore. Certo, dice Tonini, «molti ragazzi non sanno. Non sanno quasi niente della nostra storia, di cosa hanno alle spalle». I figli non sanno; e, aggiunge il cardinale, «invece è fondamentale mantenere la memoria. Sapere da dove si viene, e quanto è costato, arrivarci. È importante custodire i ricordi, per volere bene al Paese in cui si vive. È un compito, anzi, la memoria, direi anche istituzionale e politico. È un dovere, tramandare la storia, e non solo nei libri: trovare il modo di renderla viva, perché i figli capiscano ». E viva è la storia nei ricordi di Tonini. Anche se non rispettano l’ordine cronologico; e emergono liberi, vicini o molto lontani. L’incontro, a Roma, con il nuovo Papa da poco arrivato dalla Polonia. «Era commosso da Roma, dalla sua bellezza; si vedeva che scopriva di essere arrivato al centro del mondo, alla origine dell’Occidente. Così come io da giovane, studente alla Lateranense, mi emozionavo sui testi di diritto romano; la nostra civiltà, pensavo, quanto deve all’Italia, e che straordinaria fucina è stato questo Paese nei secoli per l’arte e la cultura. E, com’è bello: penso alla maestà delle Alpi, alla straordinaria diversità dei paesaggi. Che ricchezza: un Paese benedetto. Un Paese segnato dal cattolicesimo, e in cui, dopo tanti viaggi in luoghi lontani, ho sempre riconosciuto come l’impronta di una Chiesa più “madre” che altrove. Di modo che, tornando a casa, mi accorgevo di una serenità di giudizio, di una benevolenza verso il prossimo, che non si trova ovunque; e per cui io sono contento e anche orgoglioso, di essere nato in Italia». Ma ancora premono, si affollano indisciplinati i ricordi: «Io non dimenticherò mai la speranza e l’attesa di quei giorni del ’45, in cui sapevamo che gli Alleati stavano risalendo l’Italia, che venivano a liberarci. L’anniversario di oggi mi fa venire in mente quella nostra grande speranza. Vorrei solo che anche oggi si avesse più speranza, e fiducia, e meno paura. La nostra storia va avanti ». E da come lo dice, sembra che parli di un’onda larga, generosa; del fluire ampio e inesauribile del suo Po.