Coronavirus. L’immunologa: «Test sierologici, la grande illusione»
L’immunologa Luigina Romani
La domanda che tutti oggi ci poniamo è 'quanto sono protetto dal Covid? avrò abbastanza anticorpi?'. Se lo chiedono guariti e vaccinati per curiosità o per sicurezza. Ma se lo chiede anche chi esita a vaccinarsi, o chi vorrebbe fermarsi alla prima dose sperando di essere già immune. Così sul mercato si riversano centinaia di test sierologici – che appunto verificano nel sangue la quantità degli anticorpi sviluppati dopo il contagio da Sars-CoV2 o dopo la vaccinazione – , un far west incomprensibile persino agli addetti ai lavori e non sempre utile per rispondere ai nostri quesiti.
Professoressa Luigina Romani, immunologa e microbiologa, ordinario di Patologia generale all’università di Perugia, possediamo o no le armi per capire se abbiamo gli anticorpi contro il Covid?
Le armi esistono, ma alcune le sappiamo usare bene, altre no. Mi spiego: l’incontro con qualunque patogeno, virus o batterio che sia, genera sempre una risposta immunitaria fatta di molecole solubili, gli anticorpi. Quelli detti neutralizzanti riconoscono la causa dell’infezione e la fermano come una diga, e sono facili da misurare, basta un prelievo di sangue. Però c’è un’altra risposta molto più importante che non viene dagli anticorpi ma dalle cellule bianche del sangue, i famosi linfociti T ( T perché prodotti dal timo), gli unici a garantire una protezione di lunga durata. I linfociti T sono responsabili di due effetti fondamentali: non solo inducono alla produzione degli anticorpi, ma tengono una memoria immunologica, sono quindi alla base della nostra resistenza all’infezione dopo che ci siamo ammalati la prima volta. Ecco perché è più importante sapere se abbiamo i linfociti T.
E i test sierologici a nostra disposizione li sanno misurare?
No, i test in commercio ci dicono solo quanti anticorpi abbiamo in circolazione, basta da un minuto a qualche ora al massimo. Anche i linfociti T si prelevano dal sangue, ma per interrogarli e sapere se sono pienamente attivati bisogna isolare queste cellule bianche, coltivarle in vitro, stimolarle con il virus e vedere la loro reazione all’infezione. È una procedura che richiede giorni, e finora non abbiamo kit diagnostici che permettano di agire a livello di massa, lo si può fare in labora- torio e per singoli casi rari. Eppure solo questo dato ci saprebbe prevedere che esito avrebbe in noi il contagio, se lieve o grave: studi pubblicati sulle principali testate scientifiche dimostrano che la suscettibilità al virus e l’esito dell’infezione sono strettamente legati proprio alle cellule della memoria immunitaria. Pare infatti che i linfociti T che rispondono meglio nella lotta al Sars-CoV2 siano quelli abituati a farlo perché in passato avevano già incontrato altri coronavirus.
Una sorta di allenamento che alcuni di noi hanno dal passato, dunque?
Esatto. Noi da sempre siamo esposti a quattro tipi di coronavirus che causano manifestazioni di poco conto clinico alle alte vie aeree, raffreddori e quant’altro, ed è un vantaggio averli incontrati, perché questo antico allenamento pare essere responsabile della qualità della nostra risposta al Covid. Finora però è stato impossibile misurare tutto questo per due motivi: non c’erano ancora test diagnostici adatti, e poi paradossalmente negli anziani, ovvero proprio in coloro sui quali avremmo dovuto testare questa attività, i linfociti T degradano. Ma c’è una buona notizia, stanno per essere approvati alcuni test diagnostici (già in dotazione in qualche ospedale) capaci proprio di interrogare i globuli bianchi e quindi di prevedere come si comporteranno il signor Bianchi, il signor Rossi e il signor Verdi se incontreranno il Covid: i loro linfociti T vengono stimolati in vitro con il Sars-CoV2 e, se sanno reagire in modo giusto, producono una citochina chiamata 'interferone gamma'. Se il signor Rossi produce questa citochina, sa che potrà stare tranquillo perché i suoi linfociti T gli assicureranno una protezione dal Covid grave. Se invece la citochina non compare, può presumere che avrà un controllo non adeguato dell’infezione. Però è tuttora un test di nicchia.
L’esigenza di test sierologici deriva dal mistero della durata degli anticorpi dopo la guarigione o il vaccino. Che cosa ne sappiamo?
Solo ciò che ci dice l’esperienza: per ora siamo certi che almeno per 9 mesi la protezione c’è. Ma nel passato abbiamo visto che gli anticorpi di Sars e Mers, patologie cugine del Covid, durano anni. Il messaggio è che possiamo stare relativamente tranquilli, il Sars-Cov2 si comporta da manuale: il virus viene riconosciuto da cellule che attivano i linfociti T, i quali prima inducono gli anticorpi e poi garantiscono una protezione duratura. Per quanti anni? Lo vedremo col tempo, ma alla fine l’infezione porterà la popolazione a uno stato di immunità. Come mai in questo anno di pandemia non l’abbiamo raggiunta? Perché siamo stati sopraffatti dalla morte dei fragili, dovuta all’impreparazione e alla paralisi degli ospedali di fronte all’emergenza. Ma oggi, tra i tanti vaccinati, i tanti guariti e i giovani che non si ammalano in modo grave, siamo ben avviati a raggiungerla.
La vaccinazione resta comunque necessaria?
Assolutamente sì. Basta vedere i risultati odierni in Italia anche con una sola dose: nonostante le riaperture di tutte le attività i contagi non sono dilagati. E in Israele anche i non vaccinati non si infettano più, grazie al gran numero di persone protette.
Vaccinare i giovani serve anche a prevenire nuove varianti?
In realtà le varianti emergono nei soggetti il cui sistema immunitario non funziona bene, quindi certamente non tra i giovani. Piuttosto direi che, visto il contesto tragico dal quale usciamo, immunizzare i ragazzi ci mette tutti più al sicuro.
Tornando ai sierologici, i risultati che ci danno sono disparati. Nemmeno i medici spesso li sanno interpretare.
Il caos avviene perché ogni laboratorio ha una sua unità di misura, i risultati non sono confrontabili quindi sono poco utili. Inoltre un semplice test che misura quante immunoglobuline abbiamo nel sangue, ovvero la quantità di tutti gli anticorpi senza distinguere quelli veramente neutralizzanti, che senso ha? Nel nostro ospedale di Perugia un infermiere che aveva un altissimo titolo anticorpale si è ugualmente infettato, perché gli anticorpi neutralizzanti da lui sviluppati erano pochi. Puoi avere un numero alto di anticorpi ed essere poco protetto, e averne pochi ma ottimi ed essere al sicuro. Servirebbe un kit che rilevi solo gli anticorpi neutralizzanti e i linfociti T...
Morale?
Non mi farei impressionare dai numeri. Consiglio due regole empiriche: i vaccini stanno funzionando, invece di misurare le presunte difese vacciniamoci il più possibile. Inoltre affidiamoci al buon senso, modifichiamo serenamente le nostre idee a seconda di ciò che osserviamo. Lo abbiamo appena visto con Pfizer, che ora risulta addirittura più efficace se la seconda dose si riceve tre mesi dopo la prima.
Quindi ritiene giusto anche aver abbandonato il Rt (l’indice di contagio nella popolazione) a favore del Rt ospedaliero (l’indice dei ricoveri)?
Giustissimo. Come detto, il Covid ha avuto un impatto devastante ma al di fuori dell’infezione in sé, a causa di una medicina sul territorio che quasi in tutto il mondo si è trovata impreparata. Quindi il Rt rifletteva non l’infettività del coronavirus stesso ma piuttosto i deficit esterni, che han fatto sì che la pandemia risultasse gravissima. Il Rt ospedaliero invece rispecchia l’oggettiva adeguatezza o meno del locale sistema sanitario, e con l’attuale situazione di vaccinati e guariti ha molto più senso. Dobbiamo abbandonare i dogmi e via via apprendere con elasticità mentale e umiltà, questo è il vero metodo scientifico: si vede che cosa funziona meglio e lo si applica. La scienza è fatta di prove e controprove, questo virus ce lo ricorda ogni giorno. D’altra parte lo diceva Popper: è vera scienza solo ciò che può essere confutato.