Lo scrittore. Superba e infelice, quella città «costruita in costa»
Genova ferita (Fotogramma)
Un ponte non è solamente un ponte, una ordinaria infrastruttura che percorriamo ogni giorno ormai senza farci più caso, ma un elemento simbolico destinato, come il ponte Morandi di Genova, più conosciuto come “ponte di Brooklyn”, costruito nel 1967 su progetto dell’ingegner Riccardo Morandi, simbolo del boom degli anni Sessanta, allora ritenuta opera avveniristica di alto valore tecnologico, a imprimersi nel paesaggio urbano e dunque nella memoria collettiva come un’“opera moderna”, ingresso dinamico e obbligato alla città e al porto. Genova, «città superbamente bella ma difficile » come ebbe a definirla Renzo Piano, genovese di Pegli, costruita in verticale tra il mare e la montagna, un destino questo che configura la stessa natura urbana, ma anche l’indole dei suoi abitanti, aspra e riservata, attenta al risparmio, che è, innan-zitutto, risparmio di suolo.
Superba perché entro tale ristrettezza fisica, per effetto del «costruire in costa», viene formandosi nel corso di un millennio un suggestivo manufatto urbano di eccezionale compattezza e complessità. Infelice per eccesso dei suoi abusi edilizi, sacco della città perpetrato nel corso del secondo dopoguerra con concorso a delinquere di pubblico e privato in aree delicate, fragili, a forte rischio idrogeologico. Da qui l’interminabile sequenza di alluvioni (la prima risale al 7 ottobre 1970 che da sola fece 44 morti, mentre la più recente è dell’11 dicembre 2017, passando attraverso quelle del novembre 2011 e del 2014, con un bilancio complessivo di 88 morti) che trascinano con sé terra, lamiere di automobili e corpi. Lutti e ancora lutti, accuse e responsabilità pubbliche, finite davanti al giudice (dove una sindaca, Marta Vincenzi, verrà perfino condannata).
Da simili tragedie collettive, generate da un unico nodo, il controllo e la riprogrammazione del territorio nel rispetto dell’ambiente umano, Genova, con la speranza di tutti, trarrà sicuramente insegnamento di etica pubblica, che è rispetto preventivo dell’ambiente umano e dei suoi manufatti. Con il crollo del ponte Morandi, la tragedia si moltiplica in immani proporzioni: immagini del disastro, con gli enormi cumuli di macerie ad interrompere la via che collega i quartiere periferici della Val Polcevera, i resti del ponte sospesi nel vuoto e il camion fermo sul baratro con il motore ancora acceso, si susseguono una dopo l’altra come per un copione già visto. Qui, tuttavia è accaduto qualcosa di diverso: è crollato un manufatto che nonostante le molteplici avvisaglie di necessari interventi manutentivi, si pensava non sarebbe mai potuto crollare. Da ciò, appunto, deriva la generale incredulità dei genovesi, unita alla rabbia al dolore.
Non lontano dal luogo del crollo, nel luglio del 2001, un’altra tragedia di crudeltà abietta si consumava tra le mura di una caserma di polizia, mentre Genova bruciava... La città, tuttavia, in quei giorni non si rivoltò come, al contrario, invece fece nel giugno 1960 quando, forte di vivo orgoglio antifascista, reagì con una sollevazione popolare al timore di un ritorno a un governo di tipo autoritario. Che fare, allora, di fronte al dissolversi delle certezze materiali e dell’idea che abbiamo di democrazia...? Se don Andrea Gallo fosse ancora vivo pregherebbe per la sua città e per i suoi morti, insieme condannerebbe con la semplicità, la chiarezza che gli erano proprie, il falso progresso, con il suo interminabile esercito di ottusi ancorché arroganti custodi di un potere che da sempre modella, condizionandolo, il destino delle città. E noi, con lui.