Il bilancio. Sul carcere un anno di sole promesse. «Servono le misure alternative»
Detenuti nelle nostre carceri
Il garante Mauro Palma: «Nessun piano di rieducazione è possibile per i circa 10mila ristretti che devono scontare in prigione pene minime, il territorio deve interagire e offrire opportunità». Gonnella (Antigone): «È allarme: governo e parlamento mettano il tema della riforma penitenziaria come priorità» Nuovi delitti, inasprimento delle pene, più strumenti di controllo: ma il “pugno di ferro” di governo e parlamento contro la criminalità per garantire “sicurezza sociale” non è servito finora a fermare la crescita della popolazione carceraria che ha raggiunto in Italia livelli mai visti con la possibilità di una nuova condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo “per trattamenti inumani e degradanti” in violazione dell’art. 3 della Convenzione. E sulla riforma del sistema penitenziario ancora troppi silenzi e promesse non mantenute.
Presenze in rapida ascesa
Il sovraffollamento delle carceri (con un tasso che ha raggiunto quest’anno il 117,2%) è un’emergenza destinata a produrre molteplici effetti negativi sulla società civile. In base ai dati del ministero della Giustizia, ieri mattina le persone ristrette nei 192 istituti di pena presenti nel Paese risultavano 60.046 a fronte di 47.331 posti effettivamente disponibili: 12.715, dunque, le unità in “esubero”, con un incremento medio di 400 al mese. E si tratta di quasi tremila detenuti in più rispetto a quelli registrati il 31 dicembre del 2022 che erano 56.349. «Ma il problema vero, e preoccupante, è che dal 1° settembre ad oggi – precisa Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale – non c’è stato un aumento costante ma un’accelerazione: in quattro mesi i ristretti sono cresciuti di 1.700 unità. E non si tratta di un maggior numero di persone entrate in cella in questo periodo ma di meno uscite, ed è anche diminuito il numero dei detenuti in attesa di giudizio». Cosa accadrà nei prossimi mesi?
Un problema politico
Il fenomeno delle “carceri polveriera” pronte ad esplodere da un momento all’altro con aggressioni e rivolte rischia di diventare davvero ingovernabile se non ci saranno iniziative legislative in grado di rendere i luoghi di detenzione più vivibili e a dimensione umana. Le strutture sono in gran parte fatiscenti e inadeguate, gli organici della polizia penitenziaria ovunque carenti. «È un problema politico che non interroga direttamente il carcere, non è di sua competenza – dice Palma – perché nessun piano di rieducazione è possibile per reclusi che devono scontare pene brevi o brevissime: sono poco più di 9mila, infatti, quelli con condanne da un mese a 3 anni, per i quali, semmai, il periodo di detenzione è soltanto una sottrazione di vita». Tanto più che per la maggior parte si tratta di persone povere economicamente, senza fissa dimora, con problemi di salute mentale, privi di difesa legale o stranieri con difficoltà di comprensione. «Il carcere a loro non può dire “non ti voglio”, se li deve tenere, anche se non riuscirà mai a far fronte da solo alle conseguenze nefaste del sovraffollamento. Deve essere il territorio, invece, a intercettare le difficoltà esistenti nel contesto sociale, le debolezze e le fragilità, a interagire a livello culturale – sostiene il Garante – rispetto alla dispersione scolastica, per esempio, non con misure penali però, come è stato fatto per Caivano (in carcere i padri che non mandano i figli a scuola, ndr) ma con i maestri di strada, con gli oratori, i centri di aggregazione, la presenza delle istituzioni, degli operatori sociali, delle associazioni di volontariato, assegnando più risorse ai centri di salute mentale».
Le soluzioni necessarie
Ma c’è bisogno, innanzitutto, di portare altrove i detenuti che devono espiare pene brevi, creare apposite strutture di riabilitazione che formino al lavoro e al senso civico. Altrimenti quando tornano nella società civile rischiano di diventare peggiori di prima. «E non bastano le misure alternative – conclude Palma – a cui sono state sottoposte nell’anno che si sta per concludere 84.023 persone. Bisogna preparare i ritorni per quei 48mila che sono destinati a rimanere dentro fino alla fine della pena». Ma per farlo serve una rivoluzione culturale basata su un presupposto: «La parte sana della società deve saper leggere la parte malata». E sulle soluzione da adottare di fronte all’“emergenza carceri”, concorda anche l’Associazione Antigone. «Lanciamo oggi l’allarme sul sistema penitenziario italiano, prima che si arrivi a condizioni di detenzione inumane e degradanti generalizzate. La politica ponga il tema al centro della propria agenda e accetti di discuterlo senza preconcetti ideologici o visioni di parte» dichiara il presidente Patrizio Gonnella. In base alle oltre 100 visite compiute negli ultimi 12 mesi dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione in 25 istituti (33%), c’erano celle in cui non erano garantiti 3 metri quadrati calpestabili per ogni persona detenuta. A destare preoccupazione è anche lo stato fatiscente di molti edifici carcerari: il 31,4 % è stato costruito prima del 1950. La maggior parte addirittura prima del 1900. Nel 10,5% le celle erano riscaldate e nel 60,5% non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. E, ancora, nel 53,9% degli istituti visitati c’erano celle senza doccia e nel 34,2% non esistono spazi per lavorazioni, nel 25% non c’è una palestra, o non è funzionante, nel 22,4% non c’è un campo sportivo, o non è funzionante. «Le politiche governative dell’ultimo anno non hanno di certo aiutato il sistema penitenziario. Abbiamo bisogno di più misure alternative, di prendere in carico le persone, soprattutto quelle con dipendenza o disagio psichico, all’esterno, evitando che il carcere diventi un luogo di raccolta di marginalità e emarginazione».