Giovani in fuga. «Sul barcone in 500, pregavamo tutti»
Scappava da una delle più feroci dittature, Buba, 21 anni, quando è partito dal Gambia. Condannato a morte certa dalla polizia di regime, cercava la salvezza al di là del mare lontano: in mezzo, da attraversare, il Senegal, e poi il Mali, il Burkina Faso, la Nigeria... Finalmente la Libia, dove per tre settimane è rimasto sequestrato prima di potersi imbarcare con altri cinquecento... «Molti non sono mai arrivati – ricorda –. Eravamo musulmani e cristiani insieme, siamo arrivati in Sicilia dopo quattro giorni di navigazione, di freddo, di paura». Era l’inizio di aprile e la tensione è ancora visibile negli occhi di Buba, che solo adesso ricomincia a sorridere. Di fede islamica, è tra i 64 profughi di tredici nazionalità, tutti uomini, accolti nel seminario di Fermo, nelle Marche, per volere dell’arcivescovo Luigi Conti e per un’intuizione di don Vinicio Albanesi, responsabile della vicina comunità di Capodarco. Per i venti migranti cristiani c’è la cappella, per i quarantaquattro musulmani è allestita una stanza in cui si prega rivolti alla Mecca. Di quanto è accaduto giorni fa sul barcone della morte e dei dodici profughi gettati in mare, in quanto cristiani, dai loro compagni di viaggio islamici, lo ha saputo qui nel seminario da suor Rita, 39 anni, una delle cinque Piccole Sorelle di Jesus Caritas che gestiscono il centro di accoglienza: «Faccio fatica a crederlo», scuote la testa Buba ripensando al 'suo' barcone e a quei quattro giorni in balia del mare, cristiani e islamici uniti.
«Eravamo così numerosi e uno sull’altro che non saprei dire quanti fossero i cristiani in percentuale, ma ricordo bene i momenti in cui abbiamo pregato insieme, io e i ragazzi che stavano più vicini a me. Loro pregavano spesso, ma non mi è mai passato per la mente che non avessero il diritto di rivolgere il pensiero al loro Dio: credo che tutti gli uomini sulla terra abbiano il diritto di professare la propria religione, ancor più nel momento del bisogno». Una convivenza pacifica tra fedi diverse che in Gambia per fortuna si respira ancora: «Lì semmai i problemi sono di altra natura, non di islamici contro cristiani. E anche qui nel seminario di Fermo viviamo come avviene in famiglia, rispettandoci l’un l’altro pur nelle tante diversità». Tutti pranzano ogni giorno nel refettorio sotto il grande Crocifisso. E sulla porta della piccola 'moschea' gli islamici hanno appeso il disegno fatto da una delle suore, quello della loro nave mentre stava affondando e le parole del salmo 18, "dall’alto stese la mano e mi afferrò dalle acque profonde". «Il fatto è che Dio è Dio, è uno solo», interviene Wiston, 18 anni, «cattolico praticante», arrivato venti giorni fa a Pozzallo dalla Nigeria su un gommone di 99 migranti. Il suo Paese, a differenza del Gambia, è quello delle chiese bruciate ogni domenica, della persecuzione religiosa, dei nuovi martiri. Eppure anche lui è impressionato: «Un conto è l’attentato verso persone che non conosci, ma altro è arrivare a buttare in acqua chi viaggia con te da giorni, e solo perché prega in modo diverso dal tuo. Sembra incredibile che possa accadere ». Anche Wiston ricorda, invece, quelle preghiere recitate tutti insieme, nel momento in cui il motore si era fermato e sembrava non voler ripartire più, lasciandoli in mezzo al mare di notte: «Ognuno di noi si è messo a pregare ciascuno nella sua lingua e secondo la sua religione, chiedevamo a Dio che venisse a salvarci». Le cinque suore e i 64 rifugiati sanno bene che presto arriveranno nuovi profughi e dovranno stringersi un po’. «Giorni fa all’improvviso ci sono state affidate cinque eritree, non solo donne ma pure cristiane – fa sapere suor Rita –. Nell’emergenza i loro letti sono stati accolti, sa dove? Nella saletta della preghiera islamica».