Il gigantismo ha ferito il San Raffaele. Quello slancio verso traguardi sempre più ambiziosi, spesse volte raggiunti, superati, rincorsi, poi ancora più in alto, come se l’asticella di quel balzo verso il cielo non fosse mai abbastanza ardua da superare. Sta qui la grandezza e insieme la debolezza dell’opera di don Luigi Maria Verzé, classe 1920, il prete-medico, come amava definirsi, uomo capace di compromettersi fino in fondo con la modernità e con la mondanità, polemico e vulcanico, amico di Craxi, di Berlusconi, nemico di chi lo osteggiava e gli metteva i bastoni fra le ruote (non mancarono Francesco Saverio Borrelli e Rosy Bindi), senza dimenticare quei soprassalti di rabbia sulfurea, i suoi vaticinii carismatici, quel larvato sospetto che una segreta taumaturgia fosse preferibile alla pura scienza, quelle vampe di visionaria progettualità che gli facevano congegnare nuovi rami, nuovi snodi per la sua università, per i suoi laboratori d’avanguardia, fino a quel progetto
Quo Vadis, il centro di ricerca sulla longevità in cantiere in Veneto per combattere gli effetti dell’invecchiamento, metafora più che trasparente dell’ansia di prolungare – e prolungarsi – all’infinito la vita. «Torneremo a vivere fino a 120 anni come Matusalemme», ha promesso. L’uomo sta al centro della sua visione, come quello vitruviano, come quello leonardesco, quasi un’ossessione, e non a caso esce fuori quel nome, San Raffaele, nome di arcangelo,
Dio che guarisce, secondo l’etimo ebraico. «L’uomo – ama dire il prete-medico – vale a prescindere da ogni aspetto esteriore e da ogni sua estrinsecazione, non va solo curato, va
guarito».Il San Raffaele nasce così, su ispirazione-istigazione dell’allora arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, da una caparbia prima pietra posta nei tardi anni Sessanta in quella stessa Segrate in cui un ancora sconosciuto Berlusconi cercava aree edificabili. Don Verzé ci voleva costruire un ospedale cristiano e dall’esordio ufficiale nel 1971 sono accadute tante cose, luci (moltissime) e qualche ombra di un’istituzione che è diventata il primo ospedale di Milano e uno dei maggiori d’Italia, cui si sono affiancati nel 1993 un centro di ricerca, il Dibit, e nel 1996 un centro universitario, l’Ateneo Vita-Salute. In altre parole, il San Raffaele diviene per antonomasia uno dei più quotati centri di ricerca internazionali per la biomedicina e le biotecnologie, un polo universitario di grandissimo prestigio e soprattutto un presidio ospedaliero che vanta una doppia eccellenza, quella scientifica e quella clinica.Nei suoi reparti passavano (e passano) con felpata discrezione celebrità e padri nobili della buona società, artisti come Benigni o Riccardo Muti e – potrebbe mancare? – lo stesso Silvio Berlusconi, ma anche – e qui sta la bontà dell’intuizione di don Verzé – il cittadino comune, meritevole di curarsi al meglio come e quanto quello famoso. Non stupiamoci dunque del fatto che il San Raffaele, che negli anni si è caratterizzato come un’isola di avanguardia e di eccellenza sia diventato un modello da esportazione, capace di duplicarsi in Brasile, Cile, Polonia, Cina, India, Israele, Uganda, Nicaragua e Mozambico. Per non parlare dell’università, sorta nel 1996 con l’obbiettivo di «superare la contrapposizione moderna fra sapere scientifico-tecnico e sapere umanistico-filosofico», avvalendosi di una schiera di big del pensiero laico, da Massimo Cacciari a Emanuele Severino al genetista Boncinelli messi a confronto con il pensiero cattolico.Nella sua ruggente scalata verso l’impossibile don Verzé si ammala tuttavia di gigantismo. Per decenni il suo polo di ricerca svetta nel panorama italiano e si estende all’estero, diversificando il normale business della salute con investimenti remunerativi (alberghi, jet, aziende agricole), ma anche con scelte che non hanno dato i risultati sperati ed hanno prodotto invece debiti e oneri. Si ama dire che sia sempre stato don Verzé in persona a ottenere i crediti dalle banche necessari all’espansione del San Raffaele e delle sue tentacolari diramazioni. Lui un po’ se ne vanta («abbiamo convinto le banche a intrecciare i loro interessi concreti con i nostri interessi ideali») e un po’ ignora deliberatamente a cosa sta andando incontro: «Non chiedetemi – ama dire – dove trovo i soldi: noi sappiamo come ammaliare la Provvidenza».Quattromila dipendenti, mille ricercatori, quasi 600 milioni di fatturato e come bussola la sola Provvidenza non sono bastati a scongiurare una voragine debitoria (l’ammontare esatto non siamo in grado di quantificarlo, oscillando – si dice – dai 600 ai 900 milioni di euro) nella quale si inabissa sventuratamente il suo più fidato collaboratore, quel Mario Cal che era destinato a succedergli prima degli eventi delle ultime settimane e che aveva le chiavi della finanza dell’istituto. Il manager si è tolto la vita ieri, portando con sé molti dei segreti dell’istituto; qualcuno dice che la sua tragica uscita di scena non sia altro che un estremo gesto di amicizia e protezione nei confronti dell’anzianissimo padre-padrone, da poco chiamato a farsi da parte dalle cariche sociali.In soccorso delle casse esauste del San Raffaele è giunta, infatti, la Santa Sede in veste di quello che nel gergo finanziario si chiama il
cavaliere bianco, dotato cioè di mezzi freschi e di uomini per salvare una società ritenuta preziosa dal collasso. Senza quel "cavaliere", il San Raffaele avrebbe probabilmente i giorni contati. E così la speranza di chi, malato, al San Raffaele guarda. Ma ad essere curata – meglio:
guarita, com’è imperativo nella filosofia del prete-medico – ora è la sua stessa elefantiaca creatura, dentro la quale consulenti, membri del nuovo cda ed altri esperti di ingegneria finanziaria cercheranno di sbrogliare la matassa di migliaia di conti, di esposizioni, di prestiti, di fatture, di separare i tanti
asset virtuosi da quelli malati di indebitamento, di razionalizzare una galassia cresciuta impetuosamente e giunta agli onori internazionali, ma che si è rivelata nello stesso tempo una pericolosa macchina mangia-utili. Tutte cose che don Verzé non ama guardare da vicino. E che nulla tolgono ai primati del San Raffaele e a un’eccellenza durata quasi mezzo secolo.