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Ius scholae. «Noi, “stranieri”, italiani da sempre La cittadinanza? S'impara a scuola»

Stefano Pasta venerdì 3 giugno 2022

«Nessuno è straniero», recita il murale all’ingresso del Trotter. E se studia in Italia è un cittadino italiano. Alla Casa del sole di Milano è partita la mobilitazione per la Ius scholae

Se la Camera – è calendarizzato per il 24 giugno - e poi il Senato approveranno lo Ius scholae, saranno italiani giovani come Youness, Emine e suo figlio, le amiche di Kwanza. E così potranno sognare di diventare piloti d’aereo, votare per il sindaco della propria città, usare i risparmi da diciottenni per la scuola guida.

Il testo che dalla Commissione Affari Costituzionali è arrivato alla Camera introduce lo Ius scholae: può chiedere la cittadinanza un bambino nato in Italia o giunto entro i 12 anni, con entrambi i genitori regolarmente presenti, che abbia frequentato, per almeno 5 anni, uno o più cicli scolastici nelle scuole italiane. «Persone come me e mio figlio» dice Emine Ceka, trentenne di Genova, mentre sullo sfondo si sentono le urla di Nathan che reclama la mamma tornata dal lavoro.

Emine è arrivata con un gommone dall’Albania nel 1997, a 6 anni. Elementari, medie, superiori: tutte nella città della Lanterna, dove oggi lavora come contabile. Alla primaria conosce la Comunità di Sant’Egidio, di cui frequenta la Scuola della Pace: «Ci hanno insegnato a vivere insieme tra diversi e a tutti, indipendentemente dal passaporto, veniva proposto di aiutare chi aveva bisogno. Oggi, da trentenne, continuo con la Comunità ad andare a trovare gli anziani due volte la settimana, in un grande istituto di Genova e nelle case dove vivono soli».

Cittadinanza vissuta e non riconosciuta dalla legge. Proprio in queste settimane Sant’Egidio, che nel 2004 aveva lanciato "Bambini d’Italia", la prima di tante campagne inascoltate, ha rinnovato l’appello per la riforma insieme ad associazioni e movimenti, tra cui Acli, Caritas, Amnesty, Save The Children, Cgil, Cospe e Italiani senza cittadinanza.

Con Emine si capisce l’assurdità della norma. «Pochi mesi prima dei 18 anni – racconta – i miei genitori si separarono. Per problemi di reddito significò diventare maggiorenne senza permesso di soggiorno, da irregolare». Lavorava come cameriera in nero, oltre a studiare: il datore voleva farle un contratto, ma la legge non lo permetteva. «Per sei mesi dovetti andare ripetutamente in questura, fino a quando "il caso della Ceka" divenne famoso e ottenni un permesso per attesa occupazione. Sono ricordi che segnano un’adolescente».

Alle imminenti elezioni del sindaco – lo racconta con rammarico – Emine non voterà. A 24 anni dall’arrivo, continua a essere straniera: «Ho chiesto oltre due anni fa la cittadinanza, ancora non è arrivata la risposta». Prima non poteva: quando i genitori si sono separati, il padre ha venduto la casa e per sette mesi la ragazza non ha avuto la residenza. Per lo Stato "un buco" di questo tipo basta per cancellare 13 anni di scuola. Quando ha ripreso la residenza, ha dovuto attendere dieci anni di residenza continuativa per ripresentare la domanda. Poi nel 2020 fa è nato Nathan (il papà è ecuadoriano, cuoco in uno dei migliori ristoranti di Genova): un bimbo straniero nel paese in cui «è qui da una vita».

Il ventisettenne Youness Warhou, invece, voleva diventare pilota, ma l’aereo si è fermato sulla pista di decollo: niente da fare, per quella carriera serviva la cittadinanza italiana, non quella marocchina. Lui, dopo il liceo informatico a Reggio Emilia dove era emigrato da Napoli, non si è rassegnato. La sua è una delle cento storie di "Italiani senza cittadinanza" che Avvenire ha raccontato nel 2017. Ora risponde mentre torna a casa dopo 8 ore in azienda, in queste sere studia per un esame: ha unito studi universitari (ingegneria e scienze politiche) con il lavoro. Prima ha fondato una start-up per la digitalizzazione, poi è stato chiamato per lo sviluppo di software da un’importante società di moda di Reggio Emilia.

Nel 2019 il paradosso: selezionato dall’Ambasciata statunitense come giovane imprenditore d’Italia di successo, partecipa come membro italiano a un viaggio negli Usa, insieme a coetanei di altre nazioni, rappresentando un Paese di cui non ha la cittadinanza.

Lo Ius scholae? «I banchi – dice – sono il luogo in cui sono diventato italiano, dove è avvenuto l’incontro reale con l’Italia per me». E aggiunge: «Speriamo che questa proposta vada in porto e non sia l’ennesima bolla di sapone».

Come successe nel 2016, quando il Senato non approvò il testo della Camera.

Auspica che non sia un’illusione anche Kwanza Musi dos Santos, che con la Rete per la Riforma della Cittadinanza ha promosso la nuova campagna nazionale "Dalla Parte Giusta della Storia". Dice: «Le possibilità sono risicate ma ci sono, dipende dai parlamentari». Anche per la Festa della Repubblica si sono svolti flash mob a Brescia, Bologna, Torino e nei giorni scorsi associazioni e realtà studentesche hanno promosso iniziative.

Kwanza è una storica attivista, da quando nel 2013 fondò l’associazione "Questa è Roma": «La riforma, che era stata annunciata entro i primi 100 giorni del nuovo Parlamento, sembrava imminente. Decidemmo di avviare questa nuova associazione per preparare la società a italiani neri o con occhi a mandorla».

L’annuncio fu uno delle tante illusioni. L’attuale testo è riduttivo rispetto alle precedenti richieste, ma «ha il merito – sottolinea Kwanza – di introdurre un iter specifico per i bambini cresciuti in Italia, che oggi devono seguire la stessa procedura degli adulti anche se sono arrivati a un anno di vita».

Kwanza ha la cittadinanza dalla nascita, anche se è nata in Germania: sua mamma era italiana e quindi l’ha ereditata per Ius sanguinis. Da quando ha un anno vive a Roma: «A 18 anni risparmiavo per la patente e scoprii che invece le mie amiche, nate in Italia, mettevano da parte i soldi per i costi connessi alla cittadinanza». Poi all’università lei andò in Erasmus e altre coetanee, cresciute qui, non poterono partire per un passaporto di altro colore.

Spiega con consapevolezza: «Tutte le leggi sono concepite in un periodo storico: quella oggi in vigore è stata pensata quando l’Italia era ancora un Paese di emigrazione, non d’immigrazione. Va cambiata, perché è una coltellata quando un bambino cresce in Italia e scopre di non essere riconosciuto».