Stranieri. «Scimmia». «Puzzi». Storie di ordinario razzismo (ma anche di solidarietà)
Un’adolescente di origine maghrebina ha appena scoperto che una compagna di classe non vuole condividere la camera con lei durante la gita perché non sopporterebbe la puzza dei suoi vestiti dovuta al cibo che mangia: una chiara allusione alle sue origini. In un’altra scuola, una ragazzina di colore visualizza un pdf vuoto che è stato condiviso nella chat di classe: il titolo del file è “dirittideinegri.pdf”. Un’insegnante di origine africana, infine, proprio dietro la porta dell’ufficio di presidenza sente qualcuno dire che non si ricevono persone di colore.
Sono tutti casi di ordinario razzismo che ogni giorno avvengono in Italia in diversi luoghi di aggregazione. «Non siamo di fronte a violenze fisiche gravi, che trovano maggiore visibilità sui media, però esemplificano alcune forme di discriminazione che probabilmente sono ancora più diffuse» commenta Grazia Naletto, responsabile dell’area migrazioni e lotta al razzismo di Lunaria, un’associazione di promozione sociale che monitora l’evoluzione delle discriminazioni nel nostro Paese. Attraverso alcuni strumenti, come il sito “Cronache di ordinario razzismo”, l’associazione racconta sia le forme più gravi che quelle quotidiane, contrastando «la tendenza a liquidare qualsiasi episodio come un caso isolato o qualcosa di innocuo, per cui non vale la pena prendersela». Lunaria ha poi uno Sportello al quale ci si può rivolgere per un aiuto a gestire discriminazioni come quelle citate.
«Le vie per agire non sono necessariamente quelle legali, soprattutto quando sono coinvolti minori. Cerchiamo di proteggere la persona offesa prediligendo interventi rivolti alla presa di consapevolezza della gravità di quello che è successo piuttosto che alla mera sanzione» spiega Naletto. Quanto sia importante il riconoscimento da parte della comunità lo racconta bene lo studente Jhon Micciulla, un 19enne giocatore di pallanuoto che ha denunciato pubblicamente un episodio di razzismo subìto la scorsa primavera durante una gara del campionato Juniores B, girone A. Dopo una competizione, mentre tutta la squadra si stava preparando per tornare negli spogliatoi, il giovane ha sentito arrivare delle urla dagli spalti della squadra avversaria. «Nero di m...», «questo non è il tuo posto», «vattene a casa scimmia» gridavano alcuni ragazzi.
«All’inizio mi sono sentito come se tutto mi crollasse addosso, poi i miei compagni e i loro genitori sono venuti in mia difesa – racconta l’atleta –. Oggi so di non essere solo, che c’è sempre qualcuno dalla mia parte, dalla parte del giusto». A insultarlo sono stati alcuni tifosi del team di casa. Già due mesi prima, nel corso di un’altra partita con la stessa squadra e dopo che il giovane aveva avuto un’espulsione, dagli spalti erano arrivati i versi della scimmia. La vicenda non è caduta nel vuoto. Per quelle frasi la società avversaria è stata condannata a pagare una multa dalla procura federale della Federazione italiana nuoto. Il 19enne ha potuto contare sul supporto della propria società sportiva, che ha presentato l’esposto, e su quello dei compagni. Prima di una partita successiva, i giocatori hanno indossato una maglietta con la scritta «Siamo tutti Jhon».
Molti di loro hanno anche testimoniato in suo favore davanti alla procura. La famiglia del giovane e la comunità intorno a loro hanno deciso insomma di affrontare la questione di petto, nonostante la tendenza generale a normalizzare episodi come questo. «Cercavano di convincermi che fosse uno scherzo – ricorda Cinzia Camerota, la madre di Micciulla che quel giorno era presente –. A casa mia non si scherza così».