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Covid-19. Gli 007 che studiano i segreti del virus: nei guariti la memoria immunitaria

Lucia Bellaspiga sabato 5 dicembre 2020

Stanno dietro le quinte, in tivù non appaiono, ma a stretto contatto con il virus ci sono loro, talmente “intimi” da spiarlo nei suoi meccanismi più nascosti: “Non siamo virologi né epidemiologi, siamo i bioinformatici”, una branca recente della scienza che applica alla biologia la più moderna tecnologia computazionale. Pezzo per pezzo, sequenziano i trentamila “mattoncini” che costituiscono il programma (genoma) con cui il virus svolge la sua funzione, che è quella di infettarci, e ne carpiscono le informazioni. “Faccia conto che abbiamo la scatola di un immenso puzzle, sul coperchio la prima immagine del virus isolata a gennaio nei laboratori di Wuhan, dentro i 30mila pezzi che dobbiamo incastrare correttamente per ricostruire l’immagine. Un’immagine che cambia nel tempo”.

Detto così ha dell’impossibile, ma per la squadra di Stefano Toppo, professore presso il Dipartimento di Medicina molecolare all’università di Padova, è quasi routine. Il virus del Covid è mutato dall’inizio? Oggi è meno aggressivo o più contagioso? Temi che per mesi hanno visto accapigliarsi gli esperti. “Noi non abbiamo opinioni, noi cerchiamo dati e prove scientifiche. Non dibattiamo, dimostriamo. E tutto ciò che non si può dimostrare non esiste”.


Ad esempio le recenti affermazioni del virologo tedesco Alexander Kekulè, secondo il quale la pandemia che attualmente mette in ginocchio l’intero pianeta sarebbe “tutta colpa dell’Italia”, dato che il 99.5% dei casi di Covid-19 nel mondo deriverebbero “da un ceppo originario del nord-Italia” detto “mutante G”. Praticamente una variante nostrana dieci volte più contagiosa, che non ha più nulla del virus partito a fine 2019 da Wuhan, e che sarebbe dilagata proprio a causa della nostra inesperienza. Un’ipotesi suggestiva, che infatti si è guadagnata titoloni sulle prime pagine (“Italia? Unica vera responsabile della diffusione in tutto il mondo”), ma che appunto “se non si può dimostrare non esiste”. E il problema è che a non esistere sono proprio i dati: “Dall’inizio della pandemia noi analizziamo le sequenze del coronavirus estratte dai tamponi dei singoli pazienti e conservate nelle banche dati di tutto il mondo – spiega Toppo –, abbiamo quindi un panorama molto complesso delle tante mutazioni. E’ vero che la famosa variante “G” è prevalsa soppiantando ovunque il virus di Wuhan, ma dalle sequenze analizzate nelle banche dati pubbliche risulta che questa mutazione era già presente a fine gennaio 2020, non in nord Italia ma in Cina”. Contemporaneamente c’era anche in Australia (“ma in un paziente cinese che a gennaio era in visita lì”) e in Germania, proprio il Paese di Kekulé. E in Italia nello stesso periodo? “Non possiamo saperlo né noi né lui, perché le prime sequenze di italiani infetti risalgono a dopo la metà di febbraio, e il primo isolamento proviene dai due famosi turisti cinesi in vacanza a Roma a fine gennaio, che comunque avevano ancora il virus classico di Wuhan”.

Come si può quindi sostenere scientificamente che l’attuale virus più aggressivo abbia la sua culla in Italia? “Non si può”, è lapidario il bioinformatico. Semmai da noi può essere arrivato proprio dalla Germania, “Francoforte infatti è uno snodo aereo notevole per gli scambi commerciali tra Germania e Cina. Tutt’al più siamo stati sfortunati perché in Italia da marzo in poi ha letteralmente spopolato”. Non prima, dato che l’esperienza di Vo’ Euganeo, dove l’intera popolazione è stata sequenziata, insegna che fino a metà marzo il ceppo aggressivo non c’è. “E anche in Lombardia e Trentino Alto Adige, come rivelano dati che non sono ancora pubblici, è documentato come prevalente a fine febbraio. In altre parti del Veneto fa la sua prima timida comparsa solo a fine febbraio per affermarsi a inizio aprile”, ben dopo le sequenze isolate a gennaio nei pazienti cinesi e tedeschi. Ma allora su cosa si basa l’ipotesi di Kekulé? “Su nessun dato, viene il dubbio che i giornali abbiano riportato male le sue parole… L’evento è con ogni probabilità accaduto in Cina”.

Fatto sta che attualmente il coronavirus di Wuhan non esiste più, soppiantato dalla variante che ha vinto la gara imponendosi sulle altre. “Lei pensi a una rotativa o a una fotocopiatrice – spiega per immagini l’esperto –: il virus replica se stesso rapidamente, continua a mandare fuori copie di sé, ma ogni tanto ci scappa un errore di stampa, la mutazione che noi bioinformatici individuiamo ‘giocando’ con le 30mila tessere del puzzle”. In generale il virus del Covid fa pochi errori (è meno mutevole di altri) perché possiede un gene “correttore di bozze”, ma talvolta qualche refuso gli sfugge: “La mutazione è un evento naturale e casuale”.

Smentito il virologo tedesco Alexander Kekulé, secondo cui la pandemia sarebbe colpa dei focolai nel nord Italia:
«Il ceppo più aggressivo non è nato lì, ma si è trasmesso tramite la Germania»

Da quel momento il virus propaga contemporaneamente nell'ospite umano sia la specie prevalente che le sue copie imperfette: “Quando una persona positiva mi contagia, un intero pool di copie differenti del virus, in gara tra loro, fanno del mio organismo un terreno vergine di conquista”. E noi come reagiamo? “Ognuno fa storia a sé, la persona debole finisce in terapia intensiva, un’altra geneticamente forte resta asintomatica…”. Il risultato è una vera lotteria anche per il virus, che subisce una selezione casuale: il ceppo minoritario può diventare prevalente, mentre mutazioni più forti magari scompaiono solo perché il paziente in cui si sono verificate muore prima che abbiano avuto l’opportunità di contagiare un’altra persona. E’ così che il virus di Wuhan è sparito, soppiantato dal famoso ceppo “G” purtroppo mutato proprio nella proteina Spike, quella che gli consente di penetrare (per intenderci, le punte rosse che nelle illustrazioni del coronavirus ricoprono la sua sfera). Dieci volte più bravo a replicarsi rispetto al progenitore di Wuhan, “G” ha oggi conquistato il mondo. “Più facciamo circolare un virus e più gli permettiamo di sperimentare diversi tipi di mutazioni: un gioco pericoloso – avverte Toppo – anche perché nella casualità può pescare il jolly”.
Partite a carte, puzzle, gare di forza... Da una parte i virus, dall’altra i bioinformatici, sentinelle sempre allerta a individuare in tempo le “copie imperfette”, dando modo alla scienza di correggere farmaci e vaccini, “cosa che ovviamente non spetta a noi. In un’ottica del tutto ipotetica, se un antivirale è specifico per una determinata regione del virus e per fatalità quella regione muta, l’antivirale automaticamente perde efficacia. Il vaccino invece non va a prendere un singolo sito del virus ma qualcosa di molto più ampio, quindi non dovrebbe subire contraccolpi… ma la sorveglianza continua”.

Alla fine la squadra di Padova avrà comparato migliaia di campioni del Sars-CoV2, “fotografando” le evoluzioni attive contemporaneamente nei vari continenti, che quindi richiederebbero farmaci mirati. Ma i farmaci nonostante gli ottimistici proclami di primavera (“ormai sappiamo trattare il virus, non avremo morti nella seconda ondata…”) per ora non esistono. C’è ancora molto lavoro da fare per i bio-matematici, che non si lanciano mai in previsioni future ma tengono i piedi ben piantati nell’osservazione del passato e del presente: “Se a forza di mutare il Sars-CoV2 diventerà più mite non lo sappiamo, né possiamo predire quale direzione prenderà. Quel che invece noi di Padova abbiamo dimostrato inequivocabilmente è che, a differenza della Sars del 2003, nel Covid-19 gli asintomatici sono molto infettivi, per questo ci ha presi in contropiede. Solo un vaccino, creando immunità di gregge, potrà fermarlo”.

E all’orizzonte c’è anche una buona notizia, che a breve sarà pubblicata: “Dai dati di Vo’ pare che i guariti dal Covid non conservino solo gli anticorpi, che durano un tempo limitato, ma anche le cellule di memoria, che si riattivano quando la persona torna in contatto con il virus e le consentono di bloccarlo subito: sono la garanzia di un’immunità permanente”. Per quanto tempo? “Troppo presto per dirlo, lo riverificheremo a distanza di sei mesi, ma già aver trovato i segnali di una memoria è una scoperta molto importante”. Una luce in fondo al tunnel forse brilla.