Attualità

«Stato-mafia? Un evento mediatico»

Angelo Picariello giovedì 15 gennaio 2015
«I quasi 9 anni di permanenza al Quirinale di Giorgio Napolitano vanno letti alla luce di quella frase di Luigi Einaudi che teneva sul suo scrittoio: 'È dovere del Presidente non lasciare che i poteri assegnatigli dalla Costituzione siano trasmessi con alcuna incrinatura ai suoi successori'». Luciano Violante racconta il suo compagno di partito prima, il suo presidente della Camera poi - quando era presidente della commissione Antimafia - e infine l’inquilino del Colle, unico eletto due volte, che fra i primi atti del secondo mandato volle indicarlo nella commissione dei saggi per le riforme, a supporto del nascente governo Letta. Anche la scelta di accettare il re-incarico va letta in questa chiave? Può essere letta in questa chiave sia la sua ferma determinazione di non accettare la rielezione, proprio per non snaturare la prassi e la portata di un incarico già lungo - non a caso - più di una legislatura, sia la sua accettazione, per portare le istituzioni, a partire da quella più alta, fuori da quella situazione inestricabile. E le sue dimissioni? Sono anch’esse in piena coerenza con questa impostazione. Una volta cessata la situazione di eccezionalità, ha sentito il dovere di farsi da parte. Nel primo giorno dopo il semestre europeo... Anche in questa scelta c’è tutto Napolitano, l’uomo che ha sempre guardato al ruolo europeo dell’Italia. C’è anche tutta la sua formazione politica, la sua comunanza di intenti con Altiero Spinelli... Comunista anomalo, avversario di Berlinguer, anche sulla questione morale. Lui metteva al primo posto l’unità della sinistra, superando le asprezze fra Pci e Psi. Non era certamente contro la questione morale; era contro l’uso immorale della questione morale, al solo fine di screditare l’avversario politico. Bisogna ricordare il peso crescente che aveva assunto a partire dalla fine degli anni 70 la magistratura, alla quale la politica aveva delegato prima la lotta al terrorismo, poi la lotta alla mafia e infine la lotta alla corruzione. Il rischio era lo sconfinamento della magistratura dai suoi limiti costituzionali. Problemi che gli toccò vivere da protagonista da presidente della Camera. Furono anni drammatici a cavallo di Tangentopoli. Quelli del cappio agitato dalla Lega, della manifestazione del Fronte della Gioventù che circondò il Parlamento, del celebre discorso di Bettino Craxi. In tutte queste occasioni agì con fermezza, ma anche con la lucidità e la prudenza che lo hanno sempre contraddistinto. Formando, con Scalfaro al Quirinale e con Spadolini al Senato, quel triangolo a difesa delle istituzioni messe sotto assedio da un lato dalla corruzione dilagante, dall’altro dagli interventi della magistratura e di parte della politica che cavalcava quei fenomeni. Una fase che si era aperta drammaticamente con gli attentati a Falcone e Borsellino. Lei al tempo presiedeva la Commissione Antimafia. Ci può essere anche la delusione per lo scontro con la Procura parlemitana a spingerlo a lasciare prima? Non credo. Certo, non sono cose che fanno piacere. Ma Giorgio Napolitano è politico troppo ben corazzato per farsi turbare da fatti del genere. Ma come giudica questa vicenda? Non credo fosse indispensabile sentire il presidente della Repubblica. Si sapeva d’altronde che non avesse granché da dire. Diciamo che in quell’intreccio un po’ anomalo che a volte si crea fra magistratura, politica e comunicazione mi sembra sia prevalsa quest’ultima esigenza e ne è nato un evento più mediatico che giudiziario. Comunista anomalo, ma comunista a tutti gli effetti nel sacrificare gli affetti familiari accettando la rielezione. Nel senso che il pubblico che viene prima del privato... Ma in questo senso lo definirei soprattutto repubblicano. Però, prima di lasciare ha detto che non sottovalutava le 'insidie' insite nei suoi acciacchi. Come a dire: non chiedetemi di fare come Berlinguer che perse la vita sul campo... Forse intendeva riferirsi alle insidie che una non perfetta agibilità fisica potevano creare per l’istituzione, col rischio di dover limitare le sue funzioni. Ancora una volta, insomma, ha messo davanti a tutto il bene del Paese e delle istituzioni. La pagina più contestata, le dimissioni di Berlusconi nel novembre 2011, prima ancora di un voto di sfiducia. Anche in quel caso il suo obiettivo fu quello di evitare un trauma al Paese, in quel momento in cui il sistema rischiava il collasso. D’altronde l’accusa di aver favorito la scissione di Fini e l’accusa contraria di aver tardato il voto sulla mozione di sfiducia salvando così Berlusconi si elidono a vicenda, mettendo in luce ancora una volta l’assoluta imparzialità delle sue scelte. Dopo Letta e Monti, Renzi ha segnato una discontinuità con il vostro lavoro di saggi? Sicuramente, visto che ha assunto in proprio anche il lavoro sulle riforme. Ma in qualche modo anche questo, agli occhi di Napolitano, ha segnato un ritorno alla piena responsabilità della politica. Il giudizio naturalmente resta sospeso. Dobbiamo augurarci che il lavoro sulle riforme, una volta concluso, migliori davvero il sistema politico. Ne abbiamo bisogno.