Il vertice. Stallo Ue, l'Olanda insiste e Conte boccia l'ultima proposta di mediazione
Conte a Bruxelles
Al rientro in albergo nella notte dopo ore e ore di negoziato, Giuseppe Conte certifica lo stallo europeo sul Recovery fund: «Ci sono ancora molte divergenze…». E sebbene ritenga che «nulla sia incrollabile», nemmeno la strenua resistenza dell’Olanda al nuovo “bazooka” anti-Covid, il premier ritiene difficile che oggi, seconda gioranata di vertice, si arrivi ad una quadra. Anche perché l’Italia, anticipa Conte, dice «no» all’ultima proposta di mediazione del presidente del Consiglio Ue, Michel. Una sorta di “freno d’emergenza” che gli Stati Ue possono tirare se ritengono che un Paese membro non stia spendendo bene i soldi europei. «Apprezzo la generosità di Michel, ma non va bene. Abbiamo una proposta italiana che dà la possibilità al Consiglio di formulare osservazioni critiche, ma le valutazioni sul bilancio spettano alla Commissione, lo dicono i Trattati, è un limite insuperabile». È il tema scottante della “governance” del Recovery fund, ovvero dei meccanismi, delle procedure e delle condizioni con cui le erogazioni vengono effettuate. La sfida Italia-Olanda è in gran parte su questo punto: Mark Rutte vorrebbe una sorta di potere di veto dei singoli Stati membri sia rispetto ai piani di riforme nazionali sia in itinere, mano a mano che l’Ue eroga rate di finanziamenti. «Io non difendo solo la posizione italiana, io difendo la proposta della Commissione Ue», dice Conte respingendo al mittente le richieste olandesi. In bilico all’inizio della seconda giornata di vertice anche l’ammontare del Recovery fund: traballa la proposta della Commissione Von der Leyen da 750 miliardi, di cui 500 in sussidi e la restante parte in prestiti. Si torna verso la cifra inizialmente individuata da Germania e Francia, 500 miliardi. Merkel-Macron pensavano a 500 miliardi interamente in sussidi, il supplemento di negoziato chiarirà questo aspetto e molti altri ancora aperti. A questo punto, il Consiglio Ue potrebbe chiudersi oggi con un rinvio ad un nuovo vertice, forse la settimana prossima. Solo se si aprissero seri spiragli di accordo, allora il Consiglio potrebbe restare riunito a oltranza.
LO STALLO E L'ULTIMA MEDIAZIONE DI MICHEL: IL "FRENO D'EMERGENZA"
Che fosse un Consiglio Europeo difficilissimo, era chiaro a tutti. «Entriamo nelle discussioni con molto slancio – dice la cancelliera Angela Merkel, dal primo luglio al timone della presidenza di turno Ue – ma le differenze sono molto, molto grandi, e non so dire se avremo una soluzione già a questo vertice. Tutti dovranno essere disposti a un compromesso». «So che sarà difficile – le fa eco il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel –, non si tratta solo di soldi ma di persone, del futuro dell'Europa, della nostra unità». «Il mondo ci guarda», avverte la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. «La nostra Europa è in gioco», dice pure il presidente francese Emmanuel Macron. E poi arriva il solito Mark Rutte, premier olandese: «Vedo meno del 50% di chances di accordo».
I leader hanno avuto due prime sessioni plenarie per un totale di oltre sette ore. Poi una lunga pausa, con una cena rinviata di oltre un'ora. Pausa per una raffica di colloqui ristretti: un incontro a quattro tra Michel, Von der Leyen, Merkel e Macron; bilaterali di Michel con Rutte e il premier ungherese Viktor Orbán, e poi ancora a tre tra Merkel, Macron e il leader polacco Mateusz Morawecki. Il tutto mentre Michel lavorava a nuove proposte di compromesso. «Le opinioni divergono – avverte in serata il premier ceco Andrej Babis –, siamo lontanissimi da un accordo». Nella plenaria Rutte ha insistito imperterrito a chiedere che i piani di riforme e i relativi esborsi siano approvati all'unanimità da tutti gli Stati, inventandosi pure un nome: «Meccanismo per la gestione dell'esborso». Rutte, attaccato frontalmente da Giuseppe Conte e dallo spagnolo Pedro Sánchez, su questo rimane isolato, neppure gli altri "Frugali" (Austria, Danimarca, Svezia) e la loro alleata, la Finlandia, lo seguono: la vasta maggioranza converge sulla proposta di Michel per un voto a maggioranza qualificata. In serata Michel ha presentato però, per provare a convincere Rutte, una proposta di compromesso che prevede un «freno d'emergenza»: qualora un certo numero (non ancora precisato) di Stati membri abbia motivi di opporsi a un piano di ripresa nazionale, o sul rispetto degli impegni, non si potrà procedere ai pagamenti finché il Consiglio Europeo non avrà «risolto in modo soddisfacente la questione». Da capire questo numero "imprecisato" o se basterà anche un solo Stato, il che potrebbe equivalere a un diritto di veto di fatto. Ma la risposta dell'Italia e di Conte, nella notte, è stato un secco "no".
Intanto la Danimarca insiste per ridurre a 1.050 miliardi di euro il bilancio pluriennale 2021-2027 (già sforbiciato da Michel a 1.074 miliardi dai 1.100 della Commissione). Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz chiede meno sovvenzioni, più crediti e un volume del piano di ripresa inferiore, oltre a riforme vere. La Finlandia vorrebbe dimezzare i sussidi rispetto ai 500 miliardi previsti. Spagna e Italia rifiutano, ma una riduzione appare ormai probabile.
I fronti sono tanti. Macron è tornato ad attaccare gli sconti (preservati e anzi leggermente aumentati nella bozza Michel) sui contributi di cui godono non solo i 4 "Frugali", ma anche la Germania, i quali non vogliono rinunciarvi. E poi c'è l'Est: il ceco Babis chiede che più soldi vadano a quest'area, il polacco Morawecki dice no agli sconti e rifiuta per gli aiuti il riferimento agli "obiettivi climatici" e al rispetto dello "Stato di diritto". Punto, quest'ultimo, cruciale per l'ungherese Orbán, che anzi minaccia il veto. Peccato però che, intanto, proprio Rutte definiva «irrinunciabile» il legame con i principi fondamentali. E si litiga ancora sui criteri di allocazione dei fondi, che privilegerebbero Italia e Spagna a svantaggio di vari Paesi dell'Est. Oggi giornata clou. «Se serve arriveremo a domenica», dice il premier lettone Karins.
ITALIA-OLANDA, DUELLO SENZA ESCLUSIONE DI COLPI
«Mark è in piena campagna elettorale, deve avere qualcosa da dare in pasto alla sua opinione pubblica, la situazione è complessa…». Scuote la testa Giuseppe Conte nel momento più duro della prima giornata del Consiglio Ue. Sono le 18, è da poco finita la plenaria di sette ore in cui il premier italiano e l'olandese Rutte hanno platealmente battibeccato, e per Conte iniziano ore di sostanziale attesa: non ha bilaterali in programma, il presidente del Consiglio e il suo staff non possono fare altro che affacciarsi sui febbrili lavori del quadrilatero Von der Leyen–Michel–Merkel–Macron.
L'arringa dell'avvocato Conte contro la proposta di Rutte per la governance sugli aiuti – basata sull'idea che ogni Paese possa mettere il veto anche a singole erogazioni di fondi a un altro Paese, e che i trasferimenti dovrebbero cessare se non venissero raggiunti a breve termine obiettivi di crescita – è accalorata: «La tua idea, Mark, è incompatibile con i Trattati e impraticabile sul piano politico». Più o meno le stesse parole dello spagnolo Sanchez. Poco dopo, fonti olandesi fanno conoscere la replica di Rutte: «La storia dell'incompatibilità non la beviamo, siamo in una situazione straordinaria e ci vogliono soluzioni straordinarie. I soldi non vanno sprecati».
Conte è irritato. Non esita a definire quella in corso «la più difficile trattativa di questi due anni». Vede venir fuori dei pregiudizi anti-italiani. È particolarmente infastidito dai riferimenti olandesi alle pensioni, a "Quota 100". Mentre dal Tesoro e dalla maggioranza ricordano che la misura termina nel 2021 e non sarà prorogata, per il premier è insostenibile che un singolo Paese ponga diktat. Conte però cerca di restare lucido e non perdere di vista l'obiettivo. Accarezza più volte l'idea di minacciare il veto sul Bilancio Ue e sui “privilegi” mantenuti dall'Olanda. Accarezza assalti mediatici contro i "paradisi fiscali". Poi ferma la mano dei suoi uomini della comunicazione. E preferisce tenere caldo l'asse con Merkel e Macron, con il presidente del Consiglio Michel e con il commissario italiano all'Economia, Paolo Gentiloni. «Se facciamo caos anche noi, finiamo nella palude», dicono dallo staff del premier. E l'Italia non può permettersi che il Recovery fund non parta a inizio 2021.
La «linea rossa» italiana, mano a mano, si sposta quindi sul tema della governance, sulla procedura per approvare i piani di rilancio e resilienza nazionali e le erogazioni monetarie. Da Roma il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, spiega: «Ci sono alcuni Paesi che vorrebbero che un singolo Stato possa bloccare la concreta erogazione delle tranche di versamenti, dicendo che quell'altro Paese non sta facendo quello che io vorrei facessero. Per noi questa è una linea rossa, non passerà mai l'unanimità sull'esborso». Dalle parole di Gualtieri viene fuori anche una sorta di mediazione, non si comprende quanto meditata con lo stesso Conte: che un voto unanime del Consiglio serva sui piani di riforme nazionali, non nei singoli step di finanziamento. Sarebbe comunque poco spiegabile in Italia e facilmente cavalcabile dalle opposizioni. Ma salverebbe l'obiettivo sostanziale: gestire l'iter dei finanziamenti con la Commissione di Ursula von der Leyen.
L'altra via negoziale che si profila in tarda serata sul fronte italiano è quella di concedere sul “size” e incassare sulla “governance”. Ovvero: impedire i poteri di veto nazionali e accettare che la dote scenda dai 750 miliardi verso i 500 miliardi dell'originaria proposta franco–tedesca, mantenendo una netta prevalenza di sussidi rispetto ai prestiti. D'altra parte quando Macron e Merkel annunciarono il loro piano, Palazzo Chigi si disse soddisfatto. Se le cifre tornassero lì non sarebbe un dramma, tanto più che, una volta incassato il Recovery fund e una volta rivendicata la prima forma di eurobond, il governo potrebbe valutare con più serenità il Mes.