Povertà. ll pavimento appiccicoso che nega il futuro ai nostri ragazzi
In che cosa stiamo sbagliando nella lotta alla povertà in Italia? Perché – diciamocelo con onestà – rischiamo di perdere questa battaglia che è fondamentale. I numeri dell’Istat lo testimoniano in maniera impietosa: ci sono 5,6 milioni di persone in povertà assoluta, quasi il 10% della popolazione. Quelli del Rapporto Caritas lo confermano con l’evidenza della realtà: oltre 250mila persone lo scorso anno sono state costrette a rivolgersi a mense ed enti parrocchiali per sfamarsi, pagare le bollette o anche solamente farsi ascoltare perché non sapevano dove sbattere la testa. Non solo stranieri, non solo singoli, ma intere famiglie con ragazzi e bambini piccoli.
E questo è forse il dato più preoccupante, perché quando ben 1 milione e 270mila minori (il 13%, +10 punti dal 2005) si trova in condizioni di miseria significa che non solo abbiamo un enorme problema oggi, ma stiamo accettando passivamente che cresca un futuro di nuove povertà ancora più ampio. Perché quei bambini che ora non hanno pasti regolari, vivono in abitazioni precarie, faticano ad accedere all’istruzione o alle tecnologie, tra 10-20 anni allungheranno le file dell’esercito dei bisognosi, avranno peggiori condizioni di salute, maggiori difficoltà a trovare lavoro, minori strumenti a disposizione per cambiare il proprio destino. Resteranno impantanati in quelli che gli studiosi chiamano gli sticky grounds, i “pavimenti appiccicosi” da cui è difficile, quasi impossibile spiccare il salto verso una condizione migliore. Perché la povertà oggi si eredita molto più che la ricchezza. Ed è vero che la povertà stessa si sta paradossalmente “democratizzando” – nel senso che sono sempre meno i ceti sociali che ne sono sicuramente al riparo – ma, nel contempo, se nasci in una famiglia in difficoltà, è quasi certo che sarai anche tu in povertà un domani. Ancora Caritas: il 60% degli assistiti in condizione di precarietà economica viene da famiglie già assistite dalle parrocchie, senza emersione dal bisogno. E, dato record in Europa, un terzo degli adulti oggi a rischio povertà ha genitori che erano in difficoltà negli scorsi decenni.
Ma allora, come si può spezzare questa perversa catena intergenerazionale della povertà? Perché la situazione è ancora così grave nei dati 2022 quando pure era ancora in vigore il (ricco) Reddito di cittadinanza e l’Assegno unico per i figli faceva il suo debutto? La prima risposta è che le politiche sociali hanno bisogno di tempo per dispiegare i loro effetti, ma è anche vero che la struttura del Rdc troppo sbilanciata sui singoli rispetto alle famiglie e sugli italiani nei confronti dei nuclei di origine straniera ha finito per non far centrare il bersaglio delle vere povertà. Non aver corretto queste storture – subito evidenziate – è responsabilità dei governi Conte e Draghi. Ora all’esecutivo Meloni va il merito di aver rafforzato la protezione delle famiglie con figli (anche straniere), pesa però come un macigno l’incognita sui singoli poveri e l’aver abbandonato il principio dell’universalismo selettivo delle politiche di welfare. Puntando tutto sulla spinta a una maggiore attivazione delle persone sul mercato del lavoro. Direzione corretta, ma che non fa abbastanza i conti con un sistema formativo deficitario, le oggettive difficoltà di una porzione di popolazione con scarso o addirittura nullo livello di istruzione e, infine, con un’offerta di lavoro da parte delle aziende caratterizzata da basse remunerazioni, precarietà, se non vera e propria irregolarità.
Ancora Istat e Caritas avvertono come quasi la metà delle famiglie in povertà assoluta ha il capofamiglia che lavora (fra i nuclei di origine straniera questa percentuale sale addirittura all’81%) a riprova che l’essere occupato oggi non basta a far emergere automaticamente il proprio nucleo dalla condizione di miseria. Anzi. E proprio questo deve far riflettere da una parte sulla necessità – qui sì – di una forte stretta securitaria contro il lavoro nero, lo sfruttamento e, dall’altra, di un esame approfondito della questione del salario minimo. Su cui tutti sono d’accordo che la contrattazione deve essere prevalente e mai penalizzata, ma – in alcuni casi specifici – occorre trovare forme non invasive con cui i lavoratori siano tutelati anche attraverso uno strumento legislativo di base. Così come è fondamentale investire su istruzione e formazione, prime chiavi di emancipazione dal bisogno (l’incidenza della povertà fra chi ha solo la terza media è il triplo rispetto a chi è in possesso di un diploma superiore). Seguendo le indicazioni di papa Francesco, la Caritas quest’anno ha condotto “ricerche partecipate”: non sui poveri ma con i poveri protagonisti, chiamati non solo a raccontare le loro vite precarie quanto a immaginare insieme le soluzioni per sortirne. Oltre ad audire gli esperti, sarebbe utile in Commissione Lavoro ascoltare le testimonianze di chi vive sulla propria pelle la precarietà e la miseria. Forse solo così, mettendosi dalla parte degli scartati, guardando la realtà dalla loro prospettiva, si potrebbe correggere in maniera efficace la strategia della battaglia alla povertà, si può ridare la speranza ai ragazzi che il loro destino non è segnato, che l’Italia non preclude il futuro a tanti suoi figli.