Il quartiere. Sotto i piloni, con Gina e gli altri, che aspettano al "circolino"
Il "circolino" al civico 11 di via Porro
«Ecco, vede quella curvatura? Sembra uno scafo. Per quello dicono che il ponte assomiglia a una nave». Dal terrazzo del civico 2 di via Enrico Porro il viadotto te lo vedi quasi in faccia, in tutti i suoi 1.067 metri di lunghezza sul torrente Polcevera. Dalla collina di Coronata fino a quella di Belvedere, dove gli operai hanno appena finito di collaudare l’elicoidale, l’unica appendice rimasta del vecchio Morandi. «Lui era davvero imponente, questo è più discreto. In fin dei conti, guardi che bella vista c’è da qui».
La prima cosa che colpisce, nel quartiere dove sorge il nuovo ponte di Genova, è il vuoto. Il vuoto dei palazzi che non ci sono più, abbattuti per fare spazio al cantiere (e perché un condominio non può stare sotto un’autostrada). Il vuoto dei tre che sono ancora in piedi, ma disabitati, diventati proprietà del Comune. Il vuoto sotto il viadotto, che dovrà essere riempito dal grande parco dell’architetto Stefano Boeri. Il vuoto nello scorcio di via Walter Fillak, un tempo sovrastata dalla “A” della pila 10, oggi a malapena sorpassata dall’impalcato. «Pensando a quella tragedia oggi ci sentiamo più sicuri. Abbiamo un ponte nuovo, prima c’erano continui problemi di manutenzione. Certo, avremmo preferito che non crollasse».
Antonio Lillo è il presidente del comitato 'Abitanti ai confini della zona rossa', circa 270 famiglie che il cantiere della demolizione - ricostruzione lo hanno avuto sotto casa per quasi due anni. Non solo in via Porro, che è diventata una strada simbolo, ma anche al di là del viadotto, in via Campi e nel quartiere del Campasso. La 'zona rossa' era quella disegnata intorno ai monconi del Morandi: quelli che ci abitavano dentro non sono mai più tornati nelle loro case, gli altri hanno lottato per ottenere indennizzi progressivi (da 10mila a 2mila euro) a seconda della vicinanza. E alla fine sono rimasti tutti lì, in quella che poi è diventata la “zona arancione”. «Dopo due anni iniziamo a uscire da un incubo – racconta Gina Guarnieri, 63 anni –. Qui sembrava di essere in guerra, per andare al di là del ponte dovevamo fare un giro lunghissimo. È stato uno sconvolgimento totale».
Le polveri, il rumore, il terrore che quelle pile da abbattere contenessero amianto, l’evacuazione di massa il 28 giugno quando la carcassa del Morandi è stata fatta implodere a pochi metri dai loro appartamenti. La gente di via Porro la troviamo seduta in cerchio vicino al tendone che il comitato ha allestito nel cortile del civico 11, metà (ex) zona rossa e metà no.
«È uno spazio di confronto e di dialogo, se qualcuno ha bisogno di un aiuto viene qui e lo trova», spiega Patrizia Bellotto. «Il coronavirus ci ha tenuti chiusi in casa – sorride Ivo Brucciani, che vive qui da trent’anni – ma almeno ora nelle sere d’estate possiamo venire qui a fare due discorsi. Il ponte? Sì, è bello, ma ricordiamoci sempre che ne è caduto uno e 43 morti non si cancellano. Dobbiamo accettarlo e andare avanti».
«Vogliamo anzitutto che questi palazzi vuoti tornino ad essere abitati – incalza Claudio Belotti – e poi chiediamo servizi. Si potrebbe iniziare dalla palestra qui di fronte. Poi qualcosa legato all’istruzione, alla sanità». Magari un distaccamento dei carabinieri, suggeriscono altri. Nel frattempo ha già preso forma il memoriale delle vittime, una piazza circolare con 43 alberi di varie specie che verrà inaugurata il 14 agosto e sarà subito fruibile per la cittadinanza. E poi, ricostruito il ponte, bisognerà ricucire il tessuto commerciale raso al suolo dopo il crollo. Ivan Spagnolo, che rappresenta i comitati della zona arancione, aveva appena aperto in via Fillak un bar-ristorante con la moglie Soreidis, venezuelana. Tre giorni dopo è successo l’impensabile. Lui ha riaperto con fatica sul lungomare di corso Italia: «Oggi chi investirebbe qui?».