«Sarà una grande festa popolare ma anche l’occasione per ribadire i nostri valori: fratellanza, amicizia e responsabilità. Soprattutto responsabilità, fondamentale in un momento così difficile dal punto di vista economico e morale. Noi alpini vogliamo confermare il nostro impegno al servizio della collettività: siamo abituati a dare senza aspettare contropartite, questo è il senso dell’alpinità». Così, il presidente dell’Ana, Corrado Perona, presenta l’adunata 2012 degli alpini (l’85esima), che si terrà a Bolzano da oggi a domenica. Nel capoluogo altoatesino, sede del Comando delle Truppe alpine, che quest’anno festeggiano il 140° di fondazione, sono attese almeno 400mila “penne nere” che, per tre giorni, animeranno la città. La festa culminerà domenica con la grande sfilata delle sezioni, provenienti da tutta Italia e anche dall’estero. «Questa adunata – prosegue Perona – ha per noi un significato particolare. Torniamo a Bolzano dopo 63 anni: questa città è per noi un luogo simbolo». Proprio in vista di questo appuntamento, nei mesi scorsi una frangia, peraltro minoritaria di “irriducibili” di lingua tedesca, ha cercato di rovinare la festa riesumando vecchi fantasmi di epoca fascista. Operazione respinta anche dal presidente della Provincia, Luis Durnwalder che auspica «una manifestazione della pacifica convivenza e del buonsenso». Durnwalder rinnova l’appello, «all’orgoglio degli alpini», ma anche ai facinorosi per evitare che l’Adunata sia «occasione di contrapposizione, polemiche etniche o manifestazioni politiche». «Vogliamo dimostrare – sottolinea – che in Alto Adige tutti sono i benvenuti, perché siamo una terra aperta in cui soffia lo spirito europeo».
«L’ultima, grande festa autenticamente popolare al mondo». Se non ci fossero le immagini e i racconti a testimoniarlo, si farebbe forse fatica a credere alla definizione di “adunata degli alpini” data da Cesare Lavizzari, portavoce nazionale dell’Ana, l’associazione di riferimento delle “penne nere” in congedo. E invece quella dell’avvocato milanese non è affatto un’esagerazione se si pensa che, ogni anno la seconda domenica di maggio, un capoluogo italiano è “invaso” da almeno 400mila persone con il cappello con la penna ben calcato in testa. E tante sono attese anche a Bolzano.
Che cosa muove tutta questa gente, compresi tanti non più giovani?La voglia di fare festa, di ritrovarsi e far vedere l’orgoglio dell’appartenenza alla grande famiglia alpina. L’adunata si fonda sui tre pilastri dell’associazione: amicizia, fratellanza e responsabilità. I primi due sono il filo conduttore del venerdì e del sabato, giorni di incontri tra ex-commilitoni, mentre la domenica l’associazione si assume la responsabilità di una sfilata imponente e ordinata, mostrando la compattezza e la potenza degli alpini.
Perché la scelta di Bolzano?Per onorare il 140° anniversario di fondazione delle Truppe alpine, che qui hanno la sede del Corpo d’armata. Bolzano è il cuore degli alpini in armi e, per tanti partecipanti all’adunata, rappresenterà il ritorno sui luoghi della naja.
Lei parla di festa, ma nei mesi scorsi e anche in questi ultimi giorni, non sono mancate le tensioni con una parte della comunità di lingua tedesca: qual è il clima alla vigilia dell’adunata?È vero, da parte di una piccola pattuglia di irriducibili sono arrivate provocazioni che non abbiamo raccolto, perché siamo certi di andare in una Bolzano che ci aspetta e che ci vuole.
Non ci sarà quindi bisogno di montare la guardia al monumento all’alpino di Brunico, più volte distrutto con la dinamite...Rendere omaggio a quel monumento significa onorare una storia, quella degli alpini, lunga 140 anni e costruita con il sacrificio e il dolore, ma anche con tanta umanità. Se i soldati americani hanno cambiato atteggiamento in Afghanistan, assumendo un approccio più umano verso la popolazione locale, lo si deve esclusivamente al fatto che hanno copiato lo stile degli alpini.
È questa la ragione per la quale, dopo la naja alpina, tanti si dedicano al volontariato?Lo spirito alpino si impara in caserma e dopo si traduce in solidarietà. Gli alpini devono sentirsi parte della comunità e di questa si mettono al servizio. In questo facilitati dall’esempio di grandi cappellani, come monsignor Giovanni Antonietti del battaglione “Monte Stelvio”, che a Ponte Selva (Bergamo) ha costruito la Casa dell’orfano da cui sono passati più di trentamila ragazzi. Oppure, come il beato don Carlo Gnocchi, che proprio tra i reduci di Russia della “Tridentina” effettuò la prima raccolta di fondi per quella che diventerà la Fondazione che oggi porta il suo nome. In un celebre discorso del ’55, don Gnocchi disse che, per “fare bella l’Italia”, dopo la guerra, erano necessari “il coraggio, l’amore per la terra, la sobrietà e la religiosità” degli alpini.
Qualità che farebbero tanto bene anche oggi...In un’epoca di poche certezze in cui tutto o quasi sembra vacillare, la gente si fida ancora degli alpini perché portatori di valori concreti ed efficaci. Gli alpini parlano poco e fanno molto. Dove c’è bisogno, là si è sicuri di trovare un alpino che dà una mano. E nei luoghi delle grandi tragedie non portiamo soltanto braccia, ma anche un sorriso e speranza di futuro.