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Inchiesta . Profughi siriani, la merce del mare

Nello Scavo, inviato a Mérsin (Turchia) domenica 11 gennaio 2015
Il passaparola tra gli sfollati è la più affidabile agenzia d’informazioni della diaspora siriana. Solo risalendo il fiume carsico delle mezze frasi si può sperare di sapere qualcosa di più sui trafficanti. I profughi non ne parlano male. Non per paura, né per un contagio di massa da sindrome di Stoccolma. «Senza di loro – ripetono – saremmo rimasti intrappolati sotto le bombe».  È così che veniamo messi in contatto con un mediatore che ci farà incontrare uno dei “passeur” del mare. Mehmet Osman lavora per un’agenzia di export. «A me non interessa sapere cosa devono trasportare – spiega Mehmet come per promuovere i suoi servizi –. Io mi assicuro che non ci siano intralci. Gli intralci fanno perdere tempo e il tempo costa e chi mi commissiona il lavoro non vuole perdere né tempo né dollari». E come si fa ad evitare quelli che lui chiama intralci? Sorride, prima di sottolineare con lo sguardo il lento movimento con cui lascia sul piattino la mancia per i ragazzi della caffetteria. Con uno come lui è meglio non girarci troppo attorno. «Forse il mio inglese non è sufficientemente chiaro – risponde abbandonando per un attimo l’atteggiamento cerimonioso –. Non mi interessa sapere cosa trasportano i miei clienti. Se mi dicono che occorre ottenere dei permessi per le navi, cambiare proprietà, contattare degli spedizionieri, oppure demolire gli scafi, io lo faccio. È illegale? No. Loro mi pagano e io al massimo accelero le cose. La responsabilità del carico non è mia». In altre parole, è un facilitatore. Non si sporca le mani. Non sbircia dentro ai container. O almeno, questo è quello che vuole far credere. Si rabbuia ancora una volta quando gli chiediamo se sono ancora in attività gli uomini di Muammer Kucuk, l’inossidabile criminale turco che per primo organizzò a partire dalla fine degli anni ’90 l’industria dell’immigrazione illegale. «Non ne so nulla – ribatte Mehmet –. O devo spiegare proprio agli italiani cos’è la mafia?».  Meno di due giorni dopo, come promesso, si rifà vivo. Appuntamento allo stesso locale di fianco alla moschea che affaccia sul lungomare. Stavolta parla al plurale. «Alcuni amici in Italia hanno letto i giornali. Non è una buona pubblicità». Prima di andare via lascia un biglietto con il nome di un caffè nel quartiere alla moda chiamato 'Marina', costruito intorno all’elegante scalo turistico, nel quale ormeggiano decine di barche da diporto. Solo una minoranza batte bandiera turca. «Ci vediamo lì tra un paio d’ore». Mehmet arriva in moto, ma non la guida lui. Il centauro, un cinquantenne atletico e dall’espressione rassicurante, dice di essere «né turco, né siriano, né libanese. Sono un figlio del Mediterraneo».  Quando parte la prossima nave? «Insciallah. Non dipende da noi. Adesso fa freddo e per colpa vostra la polizia è sempre intorno. Ma non è a Mérsin che dovete cercare i colpevoli. I colpevoli sono a casa vostra ». In che senso? «I nostri fratelli siriani stanno male. Stanno soffrendo per la guerra. Hanno perso figli, amici, parenti, la casa e il lavoro. Chiedono di potersene andare da qui, ma i vostri leader non lo permettono ». A questo punto la conversazione prende una piega surreale. Il “figlio del Mediterraneo” declama «la qualità del servizio », a differenza di quanto accade con gli egiziani e i libici. «Le nostre navi non affondano. La gente non viene ammassata, come scrivete. Tutti hanno spazio a sufficienza. Diamo salvagente e coperte. Dovreste scriverlo». Però i profughi pagano seimila dollari ciascuno, spesso restano senza cibo e i comandi delle navi vengono abbandonati rischiando che vadano a schiantarsi. «Non è mai successo e non accadrà mai. È tutto previsto. Il prezzo è quello del mercato. Se fosse più basso le coste sarebbero piene di profughi». Dei pagamenti non vuol parlare, conferma come fosse una rassicurazione che i soldi vengono depositati prima della partenza in agenzie di money transfer che consegnano un codice ai siriani. Solo all’arrivo a destinazione i migranti comunicano la password e i trafficanti passano all’incasso. Non prima di avere ricevuto i promessi appoggi in Europa. «La nostra è un’organizzazione efficiente – si vanta –. Chi viaggia con noi sa che non verrà abbandonato».  In realtà per gli scafisti il rischio è pari a zero, perché i titolari delle agenzie di trasferimento valuta conoscono i codici e in caso di naufragio gente come il “figlio del Mediterraneo” saprebbe come farseli consegnare. «Se volete fermare questi fratelli caduti nella disgrazia – insiste –, dovete fermare la guerra e aprire le porte dell’Europa». E voi dopo che fareste? «Oggi lavoriamo con la guerra. Domani lavoreremo con la pace».