Crisi di governo. Rosario, Vangelo e Giovanni Paolo II tirati in ballo a sproposito
Rosari esibiti e baciati, citazioni di Giovanni Paolo II e consigli per la lettura del Vangelo. Di Matteo, ovviamente. Dal Matteo ex premier a quello ormai quasi ex ministro dell’Interno e vicepremier. La cronaca della formalizzazione della crisi di governo registra anche questo ennesimo uso improprio dei simboli religiosi, ridotti a meri oggetti, quasi dei portafortuna. Non è una novità, dato che Salvini vi aveva ampiamente e platealmente fatto ricorso durante la campagna elettorale per le europee.
Ma ieri c’è stato un ulteriore salto di "qualità", perché il tutto si è svolto nell’aula del Senato (ed è probabilmente una prima volta), dove l’uso di quei simboli è vietato dal regolamento, come ha fatto notare il presidente, Maria Elisabetta Alberti Casellati, stigmatizzando prontamente lo "sgarbo istituzionale" del leader leghista. E dove il comportamento di Salvini ha dato la stura a un dibattito nel dibattito, che ha alternato toni seri, sfottò francamente censurabili ed evidenti esagerazioni come quella del presidente della commissione antimafia, Nicola Morra (M5s) che equipara di fatto l’ostentazione del Rosario e il votarsi alla Madonna a mandare messaggi alla ’ndrangheta.
Il tutto è stato originato da un passaggio del premier Giuseppe Conte che ha rimproverato proprio a Salvini la sua disinvolta condotta rispetto agli oggetti sacri. «Chi ha compiti di responsabilità dovrebbe evitare, durante i comizi, di accostare agli slogan politici i simboli religiosi. Matteo – gli ha ricordato, rivolgendoglisi direttamente – nella mia valutazione questi comportamenti non hanno nulla a che vedere con il principio di libertà di coscienza religiosa, piuttosto sono episodi di incoscienza religiosa, che rischiano di offendere il sentimento dei credenti e nello stesso tempo, di oscurare il principio di laicità, tratto fondamentale dello Stato moderno».
L’elegante richiamo istituzionale del premier ha avuto però l’effetto della benzina sul fuoco. Quasi presagisse la tirata d’orecchie, il ministro dell’Interno (che fin dall’inizio della seduta teneva stretto in pugno di Rosario di Medjugorie), ha tirato nuovamente fuori la coroncina e l’ha baciata coram populo. Poi, quando è toccato a lui replicare, ha rivendicato: «Sono orgoglioso del fatto che credo, non ho chiesto mai per me la protezione, ma la protezione del Cuore Immacolato di Maria per il popolo italiano la chiedo finché campo». E di nuovo baciando il Rosario ha concluso il suo intervento.
Non prima di aver citato san Giovanni Paolo II: «Lui diceva e scriveva che la fiducia non si ottiene con le sole dichiarazioni o con la forza, ma con gesti e fatti concreti». Citazione tratta da una delle tante "cartoline" di aforismi che circolano su internet senza citazione della fonte. E che comunque certifica il trasformismo leghista (oltre che riguardo ai meridionali) rispetto ai tempi in cui La Padania di Bossi infieriva gratuitamente su papa Wojtyla all’indomani della sua scherzosa frase in romanesco ai preti di Roma.
Dopo il gesto di Salvini (che poi con i giornalisti ha ribadito: «Posso tenere il Rosario, senza che nessuno lo ritenga un pericolo per la democrazia? Ricordo Conte con padre Pio da Vespa»), in aula è scoppiata la bagarre. Il leghista Simone Pillon ha imitato il suo leader, il senatore socialista Riccardo Nencini gli ha gridato: «Facci vedere le stimmate» e un esponente di FI ha notato: «Sembra di essere a una funzione religiosa».
Matteo Renzi, invece, nel suo intervento, è andato nel merito di un riferimento coerente al Vangelo: «Salvini legga il Vangelo, ovviamente secondo Matteo, quando dice "avevo freddo e mi avete accolto, avevo fame e mi avete dato da mangiare". Se crede in quei valori, faccia sbarcare quelle persone che sono ferme, ancora adesso, ostaggio di una politica vergognosa».