«Da questa terribile vicenda bisogna trarre una riflessione generale sull’adeguatezza dei sistemi di sicurezza dei palazzi di giustizia, tanto più che da settembre la competenza tornerà al ministero». È il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ad affermare chiaramente come la sanguinosa sparatoria nel palazzo di Giustizia di Milano sia uno di quegli eventi che debbono necessariamente generare una svolta, specificando che nei prossimi giorni tutti i procuratori generali saranno convocati nel ministero di via Arenula per discutere delle misure di sicurezza in atto nei tribunali italiani. Anche il ministro dell’Interno Angelino Alfano parla di «qualcosa di gravissimo, di inaccettabile, che nel nostro Paese ha dei precedenti, ma che non doveva succedere. Faremo di tutto perché non succeda più». Insomma, il fatto è di quelli che per la loro gravità a posteriori vengono collocati fra un «prima» e un «dopo». Il prima è la situazione attuale, in cui il servizio di vigilanza esterno dei palazzi di giustizia è competenza dei Comuni d’intesa con le prefetture: per legge, può essere anche affidato con gara d’appalto a ditte di vigilanza privata , come avvenuto proprio nel Tribunale di Milano. Invece la sicurezza interna è disposta sulla base di provvedimenti che competono al procuratore generale presso la corte d’Appello e, salvo casi di assoluta urgenza, quelle disposizioni vengono adottate sentito il prefetto e i capi degli uffici giudiziari interessati. Di norma, la sicurezza interna agli edifici è affidata ai carabinieri; con due sole eccezioni (che derivano dalle disposizione di un regio decreto che non sono mai state cambiate e sono rimaste valide nel tempo): i palazzi di giustizia di Roma e Napoli, dove a svolgere il delicato servizio sono agenti della polizia penitenziaria.Un meccanismo parcellizzato, dunque, che non prevede finora il coinvolgimento centralizzato, a livello di cabina di regia, del ministero della Giustizia, né quello del Viminale. E che dunque, per la sua stessa natura, finisce per generare situazioni differenziate, con tribunali dove i controlli funzionano bene e altri dove, in anni recenti, alcuni buchi nel sistema sono stati denunciati dai frequentatori degli uffici. La stessa Anm, pur non entrando nel dettaglio dei singoli casi, avverte che la qualità della sicurezza dei palazzi di giustizia dovrà essere sottoposta a un attento esame: «Siamo andati nei tribunali e purtroppo abbiamo riscontrato vari problemi».Il caso più eclatante è quello di Palermo, dove gli allarmi di possibili attentati di mafia o di terrorismo hanno indotto il governo a prevedere nella Legge di Stabilità un decreto interministeriale che ha stanziato 6 milioni di euro per interventi straordinari, da reperire sul Fondo interventi strutturali di politica economica. Una singola previsione che lascia intravedere la necessità di interventi molto onerosi, se moltiplicati alle 26 Corti d’Appello e ai 130 tribunali italiani.La necessità di una supervisione centrale era emersa con drammaticità nell’ottobre del 2007, in occasione di una sparatoria con tre morti nel tribunale di Reggio Emilia durante una causa di divorzio. All’epoca, il dicastero di via Arenula, guidato da Clemente Mastella, rigettò eventuali responsabilità dicendo di non avere «alcun ruolo»: una nota diffusa dall’allora capo dipartimento Claudio Castelli si richiamava al «decreto del 1993», ribadendo che toccava (e tocca ancora oggi) ai procuratori generali presso le 26 corti d’Appello adottare i provvedimenti necessari ad assicurare la «sicurezza interna delle strutture in cui si svolge attività giudiziaria». Da allora, nulla si è fatto per modificare la modalità di gestione. Ora lo choc per i fatti di Milano potrebbe generare l’impulso necessario per cambiare.