Fotografia. Senza fissa dimora, ma con un’anima. A Milano gli invisibili di Jeffries
Trastevere, Roma, 2008
Trastevere, Roma. Una donna ha il capo chino sulle mani giunte. Assorta in preghiera. È in strada, ma potrebbe essere fra i banchi di una chiesa. Le mani, la fronte, portano tutti i segni del tempo, della fatica, del dolore. Il senso del lavoro del fotografo inglese Lee Jeffries è in questa immagine. E nelle storie, nei volti e negli sguardi di Margaret, Tomas, Mikael, Andy. Da Los Angeles a Miami, da Stoccolma a Londra. Homeless, uomini e donne senza dimora, quell’umanità nascosta e invisibile che popola le strade delle grandi metropoli dell’Europa e degli Stati Uniti. Senza casa e spesso senza nome. Jeffries invece parla con loro, conquista la loro fiducia, coglie tutta la loro dignità, e solo alla fine cattura i loro volti, l’anima e la potenza dei loro sguardi e in una luce completamente diversa, li restituisce e li affida a noi, spettatori di una mostra preziosa e superba nella sua disarmante semplicità al Museo Diocesano "Carlo Maria Martini" di Milano: "Portraits. L’anima oltre l’immagine", da oggi (eccezionalmente aperta fino alle 22) al 16 aprile, curata da Barbara Silbe e Nadia Righi. Cinquanta immagini di Lee Jeffries (Bolton, Gran Bretagna, 1971), fotografo dei poveri e degli emarginati, che costringono, tutti, a guardare gli homeless con occhi altri. Lo sguardo come un abbraccio. L’altro come un dono.
LA III. Skid Row, Los Angeles, 2015 - © Lee Jeffries
"Tutto comincia a Londra, nel 2008 - racconta Jeffries, ieri a Milano per l’inaugurazione della mostra, sostenuta fra gli altri da Unicredit ed Epson -. Era il giorno prima della maratona e sono uscito per fare un po’ di street photography. Ho incontrato una giovane ragazza senzatetto che sedeva all’ingresso di un negozio e ho cercato di riprenderla dall’altra parte della strada. Non le è piaciuto per niente quello che stavo facendo ed è come impazzita, ha iniziato a urlarmi contro. "Scappo e mi nascondo, o vado a parlarle?" , ho pensato fra me e me. Ho scelto la seconda strada. Mi sono fermato, sono andato a parlarle, siamo rimasti seduti per un’ora, le ho chiesto di lei e del suo passato. È stata la prima volta nella mia vita che ho fatto davvero qualcosa di altruista. È stato il punto di svolta".
Love. Manchester, 2015 - © Lee Jeffries
Quel giorno Jeffries scopre un’umanità incredibile, una volta invisibile, che si limitava come la maggior parte di noi, ad attraversare. A Roma, un’altra tappa. Un altro scatto. La donna con le mani giunte. Volti e mani, come in tante immagini in mostra. "Perché scatto foto ai senzatetto? Devo molto a questa immagine - riprende Jeffries -. Ero a Roma per un’amica la cui madre stava morendo di cancro ed ero in città per fare benedire un rosario in Vaticano prima che morisse. E mentre ero lì, ho assorbito tutto ciò che è Roma, la religione, l’atmosfera, il sentimento. E ho scattato questa immagine. In un certo senso è rimasta con me tutta quella sensazione e tutta quell’emozione di quello che stavo facendo e quell’esperienza ha portato a molti periodi di solitudine nella mia vita. Uscivo per strada a stare con i senzatetto, per alleviare parte di quella solitudine. Stando con qualcun altro che non conoscevo - continua Jeffries - non mi sentivo più solo. E più lo facevo, e più desideravo farlo. Più ascoltavo le loro storie, più cercavo di aiutarli. Così ho iniziato a lavorare anche con enti di beneficenza per i senzatetto. Tutto questo si è davvero radicato in tutto quello che faccio".
Lady B.. Oxford, 2013 - © Lee Jeffries
Uno stile, una cifra espressiva che si sposano magistralmente con gli spazi e lo spirito del Museo diocesano. "Lee Jeffries entra in rapporto con le persone, non sono mai foto rubate - sottolinea il direttore della struttura, Nadia Righi -. È un modo straordinario di sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema, quello degli ultimi, dei fragili, a cui peraltro il nostro arcivescovo (che visiterà la mostra domani, ndr) ha dedicato il Discorso alla Città in occasione di Sant’Ambrogio, dopo questi anni in cui molte persone si sono ritrovate in difficoltà, senza lavoro, in crisi". Oggi questo lavoro "acquista ancora più senso. E pone il tema del guardare l’altro. Jeffries guarda queste persone ai margini, loro si sentono abbracciati, voluti bene. Dalle foto emerge il cuore dell’uomo che desidera il bene, la felicità, l’amore. Quello che desidera ciascuno di noi". Righi cita papa Francesco: "Quando si fa la carità bisogna guardare negli occhi". Il punto non è il dare. Ma il come. "È l’abbraccio - riprende il direttore -, lo sguardo. E per questo non abbiamo voluto intitolare la mostra Homeless, come il libro fotografico di Jeffries, ma "Portraits", ritratti, sguardi, di persone che si sono sentite abbracciate". Ogni foto è un abbraccio. Ogni sguardo rivela un’anima. "Non si è mai trattato di scattare delle fotografie - conclude Jeffries -. Non sono la documentazione della vita di una persona; sono la documentazione di emozioni e spiritualità".