Ricerca. Scoperto uno dei meccanismi all'origine dell'Alzheimer
Uno studio coordinato dal professor Marcello D’Amelio dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, pubblicato su Nature Communications, ha rivelato uno dei meccanismi all'origine dell'Alzheimer, una malattia che solo in Italia colpisce circa 500mila persone oltre i 60 anni.
«Non è nell’ippocampo, la struttura del sistema nervoso centrale primariamente coinvolta nelle funzioni della memoria, che va cercato il responsabile del morbo di Alzheimer - spiega il docente, 43 anni, di origini lucane, laureato a Bari e specializzato a Roma -. All’origine della malattia ci sarebbe, invece, la morte dell’area del cervello che produce la dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per alcuni importanti meccanismi di comunicazione tra i neuroni. Quattro anni fa abbiamo avuto le prime indicazioni, che ci hanno spinto a proseguire la ricerca». Questa la sorprendente scoperta compiuta da un’équipe di una ventina di ricercatori coordinati dal professor D’Amelio, associato di Fisiologia Umana e Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma, a cui hanno hanno collaborato - oltre agli scienziati dei laboratori dell’Università Campus Bio-Medico di Roma - anche quelli della Fondazione Ircc Santa Lucia e del Cnr di Roma.
«Abbiamo effettuato un’accurata analisi morfologica del cervello – continua D’Amelio – e abbiamo scoperto che quando vengono a mancare i neuroni dell’area tegmentale ventrale, che producono la dopamina, il mancato apporto di questo neurotrasmettitore provoca il conseguente malfunzionamento dell’ippocampo, anche se tutte le cellule di quest’ultimo restano intatte». Negli ultimi 20 anni i ricercatori si sono focalizzati sull’area da cui dipendono i meccanismi del ricordo, ritenendo che fosse la progressiva degenerazione delle cellule dell’ippocampo a causare l’Alzheimer. Le analisi sperimentali, tuttavia, non hanno mai fatto registrare al suo interno significativi processi di morte cellulare. Nessun ricercatore aveva finora pensato che potessero essere coinvolte altre aree del cervello nell’insorgenza della patologia. «L’area tegmentale ventrale – sottolinea il docente – non era mai stata approfondita nello studio della malattia di Alzheimer, perché si tratta una parte profonda del sistema nervoso centrale, particolarmente difficile da indagare a livello neuro-radiologico».
I protagonisti della ricerca sono riusciti a chiarire i dettagli molecolari alla base della mancata comunicazione fra cellule nervose che, nel tempo, porta alla perdita di memoria. I ricercatori si sono resi conto che – come in un effetto domino – la morte delle cellule cerebrali deputate alla produzione di dopamina provoca il mancato arrivo di questa sostanza nell’ippocampo, causandone il ‘tilt’ che genera la perdita di memoria. Lo studio ha evidenziato, già nelle primissime fasi della malattia, la morte progressiva dei soli neuroni dell’area tegmentale ventrale e non di quelli dell’ippocampo. Questo meccanismo è risultato perfettamente coerente con le descrizioni cliniche della patologia di Alzheimer fatte dai neurologi.
Un’ulteriore conferma della scoperta è stata possibile somministrando in laboratorio due diverse terapie: una con L-Dopa, un amminoacido precursore della dopamina; l'altra basata su un farmaco che ne inibisce la degradazione. In entrambi i casi, dopo aver iniettato il rimedio si è registrato il recupero completo della memoria, in tempi relativamente rapidi.
Nel corso dei test, gli scienziati hanno registrato – accanto al miglioramento delle funzionalità mnesiche – anche il pieno ripristino della facoltà motivazionale e della vitalità. Si tratta di una seconda, importante, scoperta. «Abbiamo verificato – chiarisce D’Amelio – che l’area tegmentale ventrale rilascia la dopamina anche nel nucleo accumbens, l’area che controlla la gratificazione e i disturbi dell’umore, garantendone il buon funzionamento. Per cui, con la degenerazione dei neuroni che producono dopamina, aumenta anche il rischio di andare incontro a progressiva perdita di iniziativa, indice di un’alterazione patologica dell’umore. Perdita di memoria e depressione sono due facce della stessa medaglia».
Questi risultati confermano le osservazioni cliniche secondo cui, fin dalle primissime fasi di sviluppo dell'Alzheimer, accanto agli episodi di perdita di memoria i pazienti riferiscono un calo nell’interesse per le attività della vita, mancanza di appetito e del desiderio di prendersi cura di sé, fino ad arrivare alla depressione. Secondo gli autori della ricerca, i cambiamenti nel tono dell’umore non sarebbero – come si credeva finora – una conseguenza della comparsa dell’Alzheimer, ma potrebbero rappresentare piuttosto una sorta di ‘campanello d’allarme’ dietro il quale si nasconde l’inizio subdolo della patologia.
Le prospettive che questo studio schiude sono molteplici. Anche se si tratta solo di un piccolo passo. Il professore, infatti, invita alla cautela e non vuole alimentare false speranze nei pazienti e nei familiari di coloro che soffrono di malattie neurovegetative. «Il prossimo obiettivo – dichiara D'Amelio – dovrà essere la messa a punto di tecniche neuro-radiologiche più efficaci, in grado di farci accedere ai segreti custoditi nell’area tegmentale ventrale, per scoprirne i meccanismi di funzionamento e degenerazione. Inoltre, i risultati ottenuti suggeriscono di non sottovalutare i fenomeni depressivi nella diagnosi di Alzheimer, perché potrebbero andare di pari passo con la perdita della memoria. Infine, poiché anche il Parkinson è causato dalla morte dei neuroni che producono la dopamina, è possibile immaginare che le strategie terapeutiche future per entrambe le malattie potranno concentrarsi su un obiettivo comune: impedire in modo ‘selettivo’ la morte di questi neuroni».
I dati sperimentali hanno chiarito anche perché i farmaci cosiddetti ‘inibitori della degradazione della dopamina’ – la cui validità terapeutica è stata nel tempo molto discussa – si rivelino utili solo per alcuni pazienti: funzionano unicamente nelle fasi iniziali della malattia, quando ancora sopravvive un buon numero di neuroni dell’area tegmentale ventrale. Con la morte di tutte le cellule di quest’area, la dopamina smette del tutto di essere prodotta e il farmaco, ovviamente, non è più efficace. «L’altra sostanza somministrata in laboratorio nel corso della sperimentazione, chiamata L-Dopa – specifica la dottoressa Annalisa Nobili, prima firma dello studio – non può essere data ai pazienti se non nelle ultime fasi della malattia perché, come emerso anche nei casi di Parkinson, provoca fenomeni di particolare tossicità che possono aggravare le loro condizioni».
Pur essendo, dunque, ancora lontana la validazione di una cura efficace per l’Alzheimer, i risultati della ricerca condotta dal professor D’Amelio e dagli altri partner scientifici aggiungono un tassello decisivo nella comprensione dei meccanismi da cui prende avvio questo temibile morbo. Accorciando, si spera, i tempi che separano la Scienza dal giorno in cui sarà finalmente possibile fermarlo.
Da sottolineare anche che la ricerca era finanziata da un bando del ministero della Salute e da una Fondazione degli Stati Uniti impegnata a combattere l'Alzheimer. Grazie ai risultati ottenuti dal giovane docente dell'Università Campus Bio-Medico di Roma, ci sono buone probabilità di proseguire lo studio.