Attualità

Il caso. Scomunica, «contro le mafie viviamo da credenti»

Domenico Marino sabato 12 luglio 2014
​«Basta con l’essere cristiani insipidi, imbottiti di un buonismo che non cambia le cose né i cuori. Ad una criminalità dai tratti violenti, pervasivi, che fagocita capitali e risorse, bisogna contrapporre la cultura della pulizia e della legalità. Illuminati dalla Parola di Dio, dobbiamo e possiamo fare di più». Invita alla reazione l’arcivescovo di Catanzaro-Squillace, Vincenzo Bertolone, commentando quanto successo mercoledì 2 luglio a Oppido Mamertina, con l’omaggio della statua della Madonna delle Grazie alla casa del vecchio boss ergastolano Peppe Mazzagatti (da tempo ai domiciliari per ragioni di salute). Un episodio che giovedì sarà discusso dalla riunione straordinaria della Conferenza episcopale calabra convocata dal presidente, l’arcivescovo di Cosenza-Bignano, Salvatore Nunnari, per riflettere sulla scomunica dei mafiosi lanciata il 21 giugno da Papa Francesco a Sibari.Secondo Bertolone «l’indifferenza e la disattenzione dei buoni sono quel che consente ai cattivi di condannare una società intera all’umiliazione civile, all’asservimento». Anche perché la mafia ingloba «non solo i mafiosi condannati con sentenza definitiva ma tutti coloro i quali di essa fanno parte a pieno titolo, in colletti bianchi o rosa». Il commento, pubblicato dall’Osservatore romano, va oltre i fatti di Oppido, richiamando il caso dei detenuti mafiosi nel carcere di Larino che hanno chiesto spiegazioni al cappellano dopo il monito del Papa a Sibari. La mafia, nella analisi dell’arcivescovo Bertolone, è una «religione capovolta, sacralità atea scelta totalizzante, che pretende di trasformare e possedere l’individuo. E nulla più che una inevitabile derivazione di questa visione è il fenomeno delle processioni infiltrate dalle cosche, delle confraternite piegate ai voleri dei boss, della religiosità popolare plasmata sui propri voleri: i mafiosi, indifferenti alle verità di fede, mostrano interesse per le manifestazioni religiose, strumentalizzate ai fini del riconoscimento sociale». Il presule richiama don Pino Puglisi, della cui causa di beatificazione è stato postulatore: «Dinanzi a una piaga che da centocinquant’anni mortifica un Paese intero, il martirio di don Puglisi, il sacrificio nobile di tanti servitori dello Stato, di giornalisti, l’opera meritoria dei magistrati, la predicazione di tanti preti coraggiosi e zelanti, l’assicurazione alla giustizia di tanti malavitosi, non sono stati sufficienti. Se non troviamo il coraggio di vivere il Vangelo con coerenza se non passiamo dalle parole ai fatti, vedremo la mafia radicarsi sempre più in questa nostra terra. Occorre uscire dalle sacrestie, abitare i territori; vivere da credenti e cittadini adulti e solidali».Sull’episodio di Oppido è intervenuto anche Luigi Renzo, vescovo di Mileto-Nicotera-Tropea, diocesi confinante con Oppido. «La presa di posizione della diocesi e del vescovo Milito è stata la risposta più idonea anche se la sospensione delle processioni non credo sia la forma migliore per risolvere il problema. Non si può penalizzare un’intera comunità e colpire la fede popolare per una striminzita minoranza che può avere sbagliato». Monsignor Renzo, che ha pubblicato un saggio sulla pietà popolare, si sente vicino al confratello: «Non possiamo abbandonare a se stesso don Franco perché si tratta di problemi generali, comuni a molti seppure con sfumature diverse». Intanto il vescovo di Oppido-Palmi, Francesco Milito, in un’intervista a Radio Vaticana, difende la decisione di sospendere le processioni, affermando d’averlo fatto «per amore al mio popolo, perché in questi giorni credo ci sia stata troppa sovraesposizione mediatica. La decisione - conclude il vescovo Milito - è stata accolta benissimo».