Il dossier. Le scarpe europee «prodotte all’Est da operai sfruttati»
Che dietro ai prezzi stracciati delle scarpe nei mercati rionali ci sia lo sfruttamento del lavoro è probabile. Storie imbarazzanti sono emerse in passato anche sulle multinazionali dello sport che producono in Asia. Ma dei marchi italiani ed europei solitamente il consumatore si fida: il made in Europe è sinonimo di qualità e tutela del lavoro di chi lo produce. Una fiducia mal riposta? Il rischio c’è, visto che molte di queste aziende delocalizzano la produzione nell’Europa del-l’Est. E secondo Change Your Shoes - cartello di 15 ong europee e 3 asiatiche - nelle fabbriche di Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Romania, Polonia e Slovacchia che lavorano per noti marchi di calzature europee la realtà è fatta di salari da fame, orari di lavoro pesantissimi, condizioni insalubri.
Decine di migliaia di lavoratori che producono scarpe belle e di qualità per l’italiana Geox, la svizzera Bata, la spagnola Zara e altri marchi (Lowa, Deichmann, Ara, Leder & Schuh Ag, CCC Shoes & Bags, Ecco, Rieker, Gabor). Gli operai albanesi, macedoni e romeni, ad esempio, percepiscono un salario minimo fra i 140 e i 156 euro mensili. Meno che i colleghi del Donguann in Cina. Per poter mantenere le proprie famiglie, le operaie est-europee dovrebbero guadagnare almeno il quadruplo. Il dossier Il lavoro sul filo di una stringa è frutto di interviste a 179 lavoratori di 12 calzaturifici dei sei paesi dell’Est dove lavorano almeno 120 dei 300 mila lavoratori del cuoio in Europa. La trafila è nota: i marchi italiani inviano il materiale da assemblare nei Paesi a basso reddito, le scarpe prodotte vengono rispedite in Italia dove vengono confezionate ed etichettate come Made in Italy. «Nei paesi europei a minor reddito – affermano i ricercatori – l’industria dell’abbigliamento e delle calzature gode di pessima fama in quanto a salari e condizioni di lavoro».
Venendo pagate a cottimo, spesso le lavoratrici per lavorare più rapidamente rinunciano ai guanti o ad altre protezioni contro le colle e le sostanze chimiche che devono maneggiare. Va sottolineato che le grandi aziende non si giovano solo del minor costo della vita nei pae- si dove delocalizzano, ma di ulteriori ribassi sui minimi salariali legali: i governi locali «favoriscono specifici settori economici, come l’industria dell’abbigliamento e delle calzature, consentendo deroghe al ribasso alle leggi sui minimi retributivi nazionali». Macedonia e Bosnia Erzegovina «consentono deroghe a livelli salariali ufficiali già molto bassi». Qualche esempio? La paga in un calzaturificio, rispetto ai livelli minimi legali, è dell’89% in Macedonia, dell’86% nella Bosnia Erzegovina e appena del 71% nella Federazione della Bosnia Erzegovina».
Ma formalmente è tutto legale. Il giro di affari è enorme. Nel 2014 nel mondo sono state prodotte 24 miliardi di paia di scarpe. La maggior parte in Asia, ma il 23% delle scarpe più costose in Europa. Ed è in Toscana la conciatura del 60% di tutto il cuoio prodotto nell’Ue. «L’esternalizzazione delle produzioni condotta dai marchi europei verso l’Est Europa – afferma il dossier – non si basa su processi di responsabilità e trasparenza. E non produce dignità e benessere per le lavoratrici che vivono in situazione di povertà e spesso di miseria». Il problema non sono solo i salari troppo bassi. Le lavoratrici denunciano lavoro straordinario non retribuito (in Albania il lavoro di sabato è la regola e non l’eccezione), difficoltà a godere delle ferie spettanti, mancati pagamenti dei contributi sociali obbligatori, rischi per la salute dovuti a temperature troppo alte o troppo basse, esposizione a sostanze tossiche. A parità di mansioni, poi, le donne guadagnano meno degli uomini. Inevitabile integrare il reddito con agricoltura di sussistenza nel poco tempo libero o lavori stagionali all’estero durante le ferie.
«A tutti i marchi e distributori coinvolti – è la richiesta di ChangeYour Shoeschiediamo di assumersi le proprie responsabilità e di mettere in atto le misure necessarie affinché il rispetto dei diritti umani sia garantito nella totalità della loro catena di produzione» e «che vengano versati salari dignitosi».