Ha visto la morte passarle accanto, armata di machete e di odio etnico, i suoi amici trucidati a pochi metri di distanza, la disperazione negli occhi delle madri e dei bambini. Ma quella non era la sua ora. Per lei c’era una vita in Italia ad attenderla, una rinascita al fianco di un uomo siciliano, con cui ha condiviso l’amore, la fede e tre figli coi capelli ricci e lo sguardo profondo. Nessuna scelta, nessun merito, nessuna bravura. Per Darlene Dada Hegi, nata a Kebare in Ruanda 39 anni fa e laureata in Management, è solo la provvidenza ad aver dipanato la sua vita in un modo piuttosto che in un altro e a continuare a chiedere a questa famiglia di testimoniare la sua fede di Dio con le opere.Ascoltare la storia di Dada, con l’incalzare concitato di chi ha vissuto una tragedia inimmaginabile ed è sopravvissuta, è come entrare da comparsa in un film che ti lascia senza fiato. Dada è una dei dieci figli di un altro funzionario statale ruandese e con la sua famiglia viveva in Burundi fino al 1992. Quando scoppia la guerra civile in questo Paese dei Grandi Laghi, i genitori la mandano a studiare in un’Università del Congo. «Io non avevo mai sentito parlare di etnie, di appartenenze, nella mia famiglia non si dava peso a queste cose», racconta. Finché gli esiti del genocidio in Ruanda del 1994 non si riversarono anche in Congo, dove nel 1996 e 1997 scoppiò la prima guerra. Molti guerriglieri Hutu continuarono a dare la caccia ai Tutsi anche nell’ex Zaire e pure Dada finì nella lista, probabilmente per errore di persona. «Eravamo sedici ragazze in un istituto di suore e un giorno cominciarono ad aggirarsi alcuni uomini che chiedevano notizie della figlia di un consigliere del presidente del Ruanda, che era stato ucciso all’inizio della guerra, ma indicavano me – spiega Dada –. Lei studiava nella mia stessa università e mi avevano scambiato per lei, perché ci somigliavamo. Ma i missionari riuscirono a farla fuggire in Belgio. Le suore si allarmarono, mi obbligarono a non uscire mai da sola, mi spiegarono che c’erano etnie differenti, che lo capivano dai tratti somatici. Io avevo il naso sottile e quindi ero Tutsi. Ma è assurdo, replicai. Cosa vuol dire? Non ci somigliamo tutti? Siamo fatti allo stesso modo».Ma Dada si accorse ben presto che le cose non stavano come lei aveva sempre creduto. Dopo un esame universitario, lei si addormentò e fece un sogno inquietante. Qualche mese dopo, nell’ottobre 1997, la guerra entrò all’Università. C’erano bombardamenti, grida, sulle montagne vicine si vedeva la gente scappare. «Uscii dalla mia stanza e mi accorsi che delle ragazze non era rimasta più nessuna – ricorda con l’orrore negli occhi –. Mentre ero in piedi sulla porta, arrivò uno studente di Medicina, Leonardo, che mi urlò nell’orecchio: “Scappa, scappa, sei la seconda nella lista. Tu sei Tutsi”. Allora gli risposi: “Senti, io vivo perché Dio mi ha creato. Se c’è un altro più potente, farà di me quello che vuole”. A quel punto vidi Andrea sanguinante sulla montagna vicina, gli tiravano pietre. Era il primo della lista. Mi sentii avvolta dall’oscurità, mi girai, presi la mia Bibbia, la misi sotto il braccio e restai ferma, immobile. Non so come accadde, ma quella gente, che aveva superato il cancello per venirmi a prendere e uccidermi, mi passò accanto e mi lasciò lì, viva». Dada, in stato di shock, si rifugiò in un canale di scolo delle acque, dove rimase per giorni e giorni, non si sa per quanto tempo, senza mangiare, né bere, finché alcune donne, alla disperata ricerca di un po’ di verdura da dare ai propri figli, inciamparono sul suo corpo. «Fu in quel momento che mi risvegliai, non avevo capito nulla di quello che era successo attorno a me – dice oggi –. Da quel momento ho compreso che non posso guidare io la mia vita».Gli studi di Dada si conclusero in Ruanda, nel 2000, e, grazie ad alcuni scambi universitari con Palermo, Dada si ritrovò in Sicilia con una borsa di studio, dove fece curare anche il fratello da una gravissima forma di malaria, per cui aveva anche rischiato l’amputazione di una gamba. Fu proprio al Policlinico di Palermo che conobbe Francesco Russo, 39 anni, medico, che sarebbe diventato suo marito nel 2005. Hanno avuto tre figli, Margherita di 5 anni, Anna Maria di 3 e Giovanni, l’ultimo arrivato, di 6 mesi, che durante la Veglia pasquale è stato battezzato alla missione Speranza e Carità di Biagio Conte, assieme ad alcuni bambini nati dalle donne in fuga dall’Africa, nell’ultima ondata migratoria. Lì Dada e Francesco fanno i volontari, «non una scelta, ma una chiamata, questo è un luogo di respiro spirituale». E alla domanda: cos’è per voi la resurrezione? Rispondono: «È ogni giorno. È la risposta di Dio agli eventi che ci possono provare, è superare la sconfitta nella quotidianità».