Bosnia. Sarajevo, la scelta del dialogo. Così rinasce dopo le bombe
«Ho guardato in faccia la guerra. Ho fermato i miei occhi su ogni immagine. Le granate. I cecchini sulle colline. Le linee telefoniche interrotte. La città senza acqua. La preghiera per superare la paura. Ho vissuto ogni momento dell’assedio di Sarajevo: più di tre anni; il più lungo della storia moderna. Ho pianto i diecimila morti. Tutti. Uno dopo l’altro... Ora, però, c’è una nuova Sarajevo che vuole, anzi che pretende, una nuova vita». In un angolo del seminario il cardinale Vinko Puljic parla di dialogo, di pace, di riconciliazione, di ritorno alla fiducia. E racconta il cambio di scena con un invito a un impegno corale. «Viviamo un tempo complesso e il dialogo è decisivo per voltare pagina.
Ma dialogare vuol dire accettare l’altro, rispettare chi è differente da noi. Dialogo è vivere insieme. È il contrario della guerra che è esclusione, che è negare il rispetto delle diversità ». Gli edifici si ricostruiscono velocemente ma ricostruire i rapporti umani e guarire le ferite dei cuori è più complicato. Chiediamo a una guida se c’è un quartiere serbo a Sarajevo e lui ci risponde con una immagine. «Qui nello stesso pianerottolo di un palazzo vive il musulmano sposato con la cattolica ed il serbo con la donna ebrea...». Jacob Finci, il presidente della comunità ebraica della Bosnia-Erzegovina, spiega con una seconda fotografia quella convivenza: «Qui i musulmani sono la farina, gli ortodossi l’acqua, i cattolici il lievito, gli ebrei il sale».
Ecco lo spirito di Sarajevo. Nonostante le tensioni la 'Gerusalemme d’Europa', un quarto di secolo dopo la guerra, appare una città plasmata da molteplici culture e religioni che il nazionalismo ha tentato di smembrare senza riuscirci. Uomini e donne dalle provenienze religiose più diverse hanno dialogato e dialogano provando a mettere tra parentesi divisioni e diffidenze. Le identità non si sono confuse, ma c’è stata unità profonda nella voglia di pace che è alla radice di ciascuna religione. Andrea Riccardi, il fondatore di Sant’Egidio spiega così il 'miracolo' di Sarajevo: «C’è una voce che viene dal profondo delle tradizioni religiose: ha fondamenti e alfabeti differenti, ma si fonde in un grido di pace». Siamo di nuovo nel seminario. Nella piazza c’è una grande statua di alluminio: papa Giovanni Paolo II sembra sorridere a una città che vuole rialzarsi. Dentro, attorno a un tavolo, siedono le guide religiose della città. Il tema dell’incontro organizzato dall’associazione Napredak (in bosniaco vuol dire Progresso) e dal Movimento cristiano lavoratori spiega già tut- to: Promuovere il dialogo per sostenere la pace. «Dialogo a tutti i livelli. Sui valori, sui diritti», dice Husein Kavazovic, il gran muftì della Bosnia-Erzegovina che va avanti e fissa il primo dei diritti: quello al lavoro. «L’islam dice che la fede non è separata dal lavoro. E allora diciamo no allo sfruttamento, no a chi calpesta la dignità dei lavoratori. E ripetiamo pagate un lavoratore prima che il suo sudore si asciughi... ».
Seduto in seconda fila Carlo Costalli, il leader del Mcl (e con monsignor Franjo Topic, il capo di Napredak), vero promotore dell’iniziativa annuisce: «Costruire la pace è un lavoro artigianale e occorre non una giustizia declamata, teorizzata, pianificata... Occorre una giustizia praticata ». Poi sottovoce chiosa: «È la lezione di papa Francesco. Noi proviamo solo a metterla in pratica e a impegnarci ogni giorno nel dialogo della vita». Sul palco gli interventi si accavallano. Jakob Finci racconta ancora Sarajevo. Le sue luci. Le sue potenzialità. Il suo futuro. «Qui moschea, sinagoga e chiesa sono sulla stessa strada. La guerra in Bosnia non è stata una guerra religiosa. I leader religiosi di questa regione sono molto più ragionevoli di quelli politici. Sono più pragmatici, cercano di collaborare...». Un giovane ascolta e ripete, quasi a memoria, quello che ascolta da sempre dai genitori: «La religione è stata manipolata dai politici. Loro hanno le colpe più gravi perché un crimine commesso nel nome della religione è il più grande crimine contro la religione».
Fuori c’è il sole. I colori della frutta nel mercato di Màrkàle sono vivi. La gente compra. Parla. Sorride. Spera. Qui il 5 febbraio del 1994 una granata lanciata tra le bancarelle fece la strage più terribile: 68 morti e 144 feriti. Sono passati ventitre anni e a Sarajevo c’è un’aria bella. «Chi è sopravvissuto alla guerra conosce bene il valore della pace», dice Finzi che scommette, senza esitazione, sulla forza dei giovani: «Tocca a loro far rinascere la Bosnia. Con la loro capacità di parlarsi. Di crescere insieme». È questa la sfida che unisce. Danilo Pavlovic, priore nel monastero ortodosso di Zitomislici a pochi chilometri da Mostar, lega le durezze del passato alla voglia di ricostruire del presente: «La guerra ha lasciato ferite e promuovere la pace è una missione complicata. Ma la strada è solo una: nutrire la pace, annunziare la pace, promuovere la pace ». Ivo Tomasevic, segretario generale della conferenza episcopale della Bosnia-Erzegovina, va avanti su quella linea: «La guerra in Bosnia è stata fermata, ma la pace vera è ancora da costruire. E allora dialogo, dialogo e ancora dialogo». Un coppia di ragazzi sorseggia un succo di melograno. Colpisce la loro fiducia, il loro ottimismo, la loro voglia di vivere in una città senza muri. «Vivere insieme tra gente diversa è possibile in ogni parte del mondo», ci dicono sorridendo. Il priore di Zitomislici ascolta e annuisce. «Dialogo significa cercare interlocutori tra quelli che vedono le cose in maniera diversa da come le vediamo noi. Dialogo è trasformare un interlocutore in un amico. Dialogo è puntare insieme su ciò che unisce». Ora sono quei ragazzi ad ascoltare e a sorridere. La lezione del priore loro già la mettono in pratica.