La testimonianza. «Sappiamo di rischiare la vita ma è sempre meglio della guerra»
«Ho visto la morte davanti agli occhi nel mio Paese in guerra. Ho visto la morte davanti agli occhi in mare, sul barcone che dalla Cirenaica ci ha portato in Italia. Ma lo dovevo fare e altri lo faranno ancora perché è molto meglio della guerra». È il racconto di Omar, 22 anni, siriano di Dar’a, città del Sudest del Paese, prossima alle frontiere con Giordania, Libano e Israele. È il racconto della rotta dalla Libia orientale, Cirenaica, dove comanda il generale Haftar, con l’appoggio della Russia. Omar non conosce le dinamiche della geopolitica, ma ha pagato, e non solo soldi, i trafficanti che godono, o sono protetti, da queste dinamiche.
Lo incontriamo nel porto di Roccella Jonica dove è arrivato il 24 marzo su un barcone che trasportava 400 persone. E, grazie a due mediatrici culturali della Caritas della diocesi di Locri-Gerace, ascoltiamo la sua storia. E per la prima volta si alza un po’ il velo su questa rotta di cui si parla molto poco, malgrado nelle ultime settimane abbia portato sulle coste calabresi e siciliane più di 4.500 persone, su pescherecci che ne trasportano a centinaia, gli ultimi il barcone con 500 persone il cui salvataggio è in corso e quello che nella notte tra domenica 26 e lunedì 27 marzo, ha portato 650 immigrati a Roccella. Molti di loro sono ancora qua, o in altri comuni della Locride, assieme a parte degli arrivi precedenti. Omar è uscito dalla Siria nel 2021 raggiungendo Tripoli. « Non sono andato in Turchia perché pensavo fosse peggio.
La mia famiglia è rimasti in Siria, sono partito solo io perché non avevamo abbastanza soldi ». In patria faceva lo chef e anche in Libia aveva cominciato a fare lo stesso lavoro. « Ma poi mi hanno messo in carcere per quattro mesi. Sono stato malissimo e ancora oggi ho problemi ai reni e soffro di epilessia». Per uscire dal carcere ha pagato 4mila dollari. « I trafficanti pensano che noi siriani siamo pieni di soldi». Lui, intanto, ha deciso di lasciare anche la Libia, di partire per l’Italia. Ma non dalla zona di Tripoli. « Mi hanno detto che era meglio, più facile e più sicuro dalla Cirenaica. Così per tre giorni ho attraversato il deserto e ho raggiunto Kambut. Avevano promesso che ci avrebbero messo in una casa e invece per altri tre giorni siamo stati in un garage ». Non le uniche promesse non mantenute. «Ci avevano detto che saremmo stati in un posto sicuro e poi in una barca sicura. Ma non è stato così». L’organizzazione, ci spiega, è composta da libici e egiziani, sia a terra che sulla barca, e non è la stessa che lo aveva tenuto in carcere a Tripoli.
«Ho pagato a loro 4.200 dollari per il viaggio in barca. Siamo partiti martedì, un viaggio terribile. Ci hanno preso soldi e cellulari. Il mare era molto mosso, la barca vecchia e si muoveva in un modo pauroso. Ci avevano detto che a bordo avremmo trovato coperte e quindi di non portare nulla. Invece a bordo non c’erano. Non c’era niente. Un ragazzo pachistano è morto per il freddo». Poi venerdì il soccorso delle motovedette della Guardia costiera. «Quando le ho viste è tornata la nostra anima», spiega così le sue sensazioni in quel momento. Gli chiediamo se ha saputo della strage di Cutro. «Sì, l’ho saputo. Lo so che questi viaggi sono pericolosi, ce ne siamo accorti anche noi. Ma sono meglio della guerra in Siria e molto meglio di quello che abbiamo vissuto in Libia. Anche se abbiamo visto la morte davanti a noi in mare», torna a ripetere.
E ora? «Vorrei andare in Germania dove ho dei cugini. Ma non ho più neanche un euro. Non ho problemi a restare qui finché non avranno completato tutti i controlli, ma vorrei stare un po’ meglio. Sono stato trattato molto bene, soprattutto dai medici. Qui si rispettano i diritti. Ma il posto dove siamo ospitati non va bene, è sporco, fa freddo e abbiamo poche coperte».