Attualità

Incontro internazionale ad Anversa. Religioni in dialogo contro la violenza

Giovanni Maria Del Re lunedì 8 settembre 2014
Anversa - La prima giornata dell'Incontro internazionale "La pace è il futuro - religioni e culture in dialogo" organizzata dalla Comunità di Sant'Egidio ad Anversa ha visto 17 "panel" spaziare dai temi più scottanti che riguardano le religioni, la violenza, la pace. Il filo rosso sono le parole del fondatore della Comunità Andrea Riccardi: «la forza di questo cammino nello spirito di Assisi è confermare che non c'è guerra e violenza in nome di Dio», perché «la violenza in nome di Dio è una bestemmia». Tra i panel della giornata possiamo ricordare uno più seguiti, quello dedicato proprio a "religioni e violenza", che ha visto la partecipazione di due importanti personalità del Pakistan, terra di crescenti tensioni tra musulmani e cristiani: Muhammad Abdul Khabir Azad, imam della moschea di Lahore in Pakistan, e Paul Bhatti, cristiano, fratello di di Shabaz, ministro per le Minoranze del Pakistan, ucciso nel marzo 2011 per il suo impegno per la diffusione di una cultura di convivenza e di pace tra le minoranze religiose del Paese. Due leader che cercano di portare avanti un modello di dialogo e di amicizia tra i leader delle due religioni. «L’islam è la religione della pace e del benessere e secondo il Corano la persona migliore al mondo è quella che fa stare bene tutti gli uomini», ha affermato Azad. E Paul Bhatti ha ricordato di essersi avvalso del rapporto personale con Azad per porre fine alla violenza contro una ragazza incolpata di blasfemia, le cui accuse sono state poi smontate, ma anche del sostegno avuto da tanti amici musulmani quando ha ricevuto minacce di morte. «Coloro che propalano l'odio, il crimine e la distruzione si radicano nelle passioni abbiette - ha avvertito anche il rabbino argentino Abraham Skorka, amico personale del Papa Francesco - si radicano nelle passioni che, più che religioni dell'odio, altro non sono che mere manifestazioni della miseria umana». Religione e violenza è collegato con un altro panel di ieri, dedicato ai "martiri del tempo presente". In proposito il cardinale cardinale John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, capitale della Nigeria, paese che vede, nella parte settentrionale, l'avanzata delle milizie islamista Boko Haram e cui è stato dedicato un panel ad hoc nel pomeriggio. «Un conflitto sorprendente, inspiegabile», ha detto il prelato. «Siamo in un'epoca - ha avvertito poi - in cui molti sono pronti a morire, a volte purtroppo per la causa sbagliata». Martirio, ha ricordato, è invece, fedele alla radice greca, anzitutto testimonianza di fede». «I cristiani debbono mantenere una distanza interiore da uno Stato che desiderasse rafforzare il patriottismo con simboli cristiani - ha detto il vescovo ortodosso ucraino Nikolaj - il prete non deve cedere al delirio patriottico o nazionalistico, non può condividere qualunque ideologia, non può esortare a sacrifici in nome della Patria o della Chiesa». E secondo l’arcivescovo siro-ortodosso Kawak «anche in mezzo alla violenza il credente deve professare la fede con dolcezza e rispetto, segni della vera forza, come ci insegna il perdono dato ai persecutori da tanti martiri». «Non sono martiri - ha aggiunto - i cristiani cacciati da Mosul e dalla Valle di Ninive? Non lo sono le donne vendute come schiave e a cui è rubato il futuro? Sono le pecore condotte al sacrificio di cui parla la Scrittura». Don Angelo Romano della Comunità di Sant’Egidio, rettore della Basilica di San Bartolomeo all’Isola di Roma, ha ricordato Suor Leonella Sgorbati, uccisa il 17 settembre di otto anni fa in Somalia all’uscita dell’ospedale di Mogadiscio: «Era accompagnata dal suo autista somalo, Mohammad, musulmano e padre di quattro figli, che vide giungere l’assassino e, per difenderla, corse a coprirla con il suo corpo, morendo lui per primo. Un panel che ha visto anche la testimonianza di monsignor Jesus Delgado, vicario generale di San Salvador e segretario di Romero, ha ricordato come il vescovo ucciso sull’altare nel 1980 «aveva paura e più volte lo aveva manifestato. Non moriva per eroismo, ma per adempiere ai suoi doveri di cristiano». «Il radicalismo è il prodotto dell’alleanza tra tiranni e seguaci ignoranti», ha detto Ali Abtahi Sayyed Mohammad, presidente dell'Istituto iraniano per il dialogo interreligioso al panel «la ricerca per la pace».