Nell’Italia che (forse) verrà le leggi ordinarie non dovranno fare la spola continua tra Camera e Senato. Gli onorevoli saranno drasticamente ridotti (450 i deputati, 150-200 i senatori) e il presidente del Consiglio potrà scegliere i ministri senza estenuanti mediazioni con i partiti e licenziarli senza correre il rischio di far abortire il governo. Non è fantapolitica e nemmeno un libro dei sogni. Ma la relazione conclusiva della Commissione governativa per le riforme istituzionali (i cosiddetti «saggi», 35 personalità del mondo accademico e politico rappresentativi del pluralismo culturale italiano), che è stata consegnata dal ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello al premier Enrico Letta.Il documento, 33 pagine – scritte in un linguaggio non da iniziati ma accessibile a tutti – segnala con equilibrio e realismo le rughe e le smagliature della nostra cara e vecchia Costituzione. E propone, in modo spesso aperto e problematico, alcune (e non sempre univoche) soluzioni per un sistema politico e istituzionale più fluido e al passo con i tempi.A costo di frenare facili entusiasmi bisogna ovviamente ricordare che quelle degli esperti sono solo «proposte». Nel senso che hanno un valore culturale, di moral suasion, ma nessuna norma obbliga il Parlamento a farle proprie. Tuttavia dimostrano che è possibile ragionare in modo non fazioso ed equilibrato attorno all’ammodernamento del sistema costituzionale e sulla legge elettorale, avendo come stella polare l’interesse del Paese.
I precedenti sono negativi. Ma stavolta c’è un cauto ottimismo<+tondo> I pessimisti ricorderanno i precedenti negativi delle Commissioni Bicamerali, presiedute da Aldo Bozzi (1983-85), da Ciriaco De Mita e Nilde Iotti (1994-94) e da Massimo D’Alema (1997). . Tanta dottrina, tante buone idee, intense discussioni e moltissima carta, finita virtualmente al macero. Tuttavia, oggi più di ieri, le forze politiche sentono il fiato sul collo di un elettorato stanco di polemiche improduttive e di mancate riforme, che si è espresso recentemente in un clamoroso voto di protesta e che non intende più concedere deleghe in bianco. Più che sulla consapevolezza o meno della necessità di affrontare le riforme costituzionali da parte delle forze politiche, la possibilità o meno di concludere il percorso riformatore (per il quale ci vorrebbero almeno un paio di anni) è legata a doppio filo alle sorti della legislatura e alla durata della stagione delle larghe intese che ha permesso la nascita del governo Letta. Il riaccendersi dello scontro in Parlamento e nel Paese porterebbe fatalmente le forze politiche a tornare a ragionare sulle proprie convenienze piuttosto che sull’utilità delle riforme per l’Italia, con conseguente binario morto per la stagione "costituente". Ma vediamo nel dettaglio quali sono i consigli degli esperti saggi per il "restauro" delle nostre istituzioni.
Bicameralismo addio, arriva il Senato delle Regioni. Il bicameralismo perfetto è, secondo i saggi, un lusso che il nostro Paese non si può più permettere. Tutti i 35 si sono espressi per differenziare la Camera politica (che darebbe la fiducia al governo) da un Senato, che gli studiosi vorrebbero trasformare in qualche altra cosa o addirittura abolire. La proposta che va per la maggiore è quella di trasformare Palazzo Madama nella Camera delle Regioni. La discussione è aperta sulla composizione di quest’ultima: ossia se i membri debbano essere esclusivamente di diritto (i vertici regionali e degli enti locali), se vadano designati o dalle Regioni o se, infine, vengano fatti eleggere dal popolo, in concomitanza con le elezioni regionali. Qualunque sarà il sistema adottato, di sicuro finirebbe la "navetta" tra le due Camere per le leggi ordinarie. Per le leggi costituzionali si manterrebbe invece la doppia lettura. In questo quadro già semplificato si propone una drastica riduzione dei parlamentari, in linea con la media europea: 450 deputati e 150-200 senatori.
Premier più autorevole per governi più forti. Anche tra i membri della commissione c’erano i fautori del presidenzialismo americano o del semipresidenzialismo francese. Che sono rimasti della loro idea. Tuttavia la maggioranza dei saggi ha voluto indicare, come prospettiva più realistica, la strada della razionalizzazione del sistema parlamentare oggi vigente, soprattutto intervenendo sulla figura del primo ministro. Questo verrebbe indicato dal capo dello Stato sulla base dei risultati delle elezioni (come capo della coalizione vincente) e otterrebbe dalla Camera la fiducia sulla sua persona, non più sul governo. Quindi, ottenuto il via libera, avrebbe mano libera per la scelta (e la revoca) dei ministri. Avrebbe inoltre il potere di indicare date certe per l’approvazione di provvedimenti governativi e potrebbe essere mandato a casa solo con una mozione di sfiducia costruttiva. Il che significherebbe basta crisi al buio: ossia il premier rimane in carica finché in Parlamento non si è formata una maggioranza su un altro nome.
Via subito il Porcellum. In coro i saggi hanno decretato la fine del Porcellum, considerato un sistema elettorale pernicioso. Tuttavia, come del resto tra le forze politiche, non c’è stato nella Commissione un accordo su una soluzione univoca da seguire. I saggi hanno "saggiamente" deciso di indicare alcune strade, senza sceglierne una. Tuttavia una proposta che è sembrata piuttosto interessante è quello di prevedere un doppio turno elettorale: nel primo si presenterebbero i partiti; se nessuno ottenesse la maggioranza assoluta, si aprirebbe un secondo turno di coalizione.
Più forza alle leggi d’iniziativa popolare. La commissione si è anche occupata delle leggi d’iniziativa popolare, quelle proposte dai cittadini con la raccolta di firme che oggi finiscono inevitabilmente nei cassetti dei presidenti di Camera e Senato. Viene infatti individuato un meccanismo per il quale le proposte di legge popolare si debbano obbligatoriamente mettere al voto in Parlamento entro un termine definito (sei mesi) e, in caso di bocciatura, dopo una serie di passaggi, si può persino arrivare al referendum popolare.
Stop ai conflitti di competenze tra centro e periferia. La necessità di definire con maggiore certezza le competenze dello Stato centrale e quelle di Regioni ed enti locali ed evitare l’enorme contenzioso che si è prodotto dopo la riforma del titolo V è stata unanimemente segnalata sia dai fautori di un ritorno al centralismo, sia dai favorevoli a forme di federalismo più avanzate.