Aborto. Ru486, il controllo che non c'è
Quando, 15 anni fa, cominciammo a indagare sulle morti collegate alla Ru486 – la pillola abortiva – ci trovammo di fronte a una coltre di silenzio ufficiale. La farmacovigilanza dei diversi Paesi in cui la pillola era stata introdotta registrava pochissimi eventi fatali, e ne attribuiva spesso le cause a problemi pregressi della paziente. Le morti sono emerse con estrema fatica, grazie a una ginecologa americana combattiva, Donna Harrison, a un padre disperato per la scomparsa della giovanissima figlia, Monty Patterson, e anche alle pazienti ricerche di chi scrive, riportate in un gran numero di articoli pubblicati nel tempo da Avvenire. Si arrivò a contare una trentina di casi, ammessi alla fine anche dalla stessa ditta produttrice del farmaco, e la questione delle morti riempì la stampa americana (non quella italiana).
Non vogliamo tornare sulla pericolosità della Ru486 ma sulla necessità di un articolato e attento sistema di monitoraggio, sicure che il ministro della Salute Roberto Speranza sia sensibile alla tutela della salute femminile. La sorveglianza sanitaria con la pillola abortiva viene messa a dura prova per le intrinseche caratteristiche del metodo. Oggi i dati sulle Ivg – le interruzioni volontarie di gravidanza – vengono raccolti e comunicati agli uffici ministeriali con grande precisione, grazie a sistemi che si sono affinati nel tempo e che permettono al Ministero della Salute di effettuare un controllo efficace. I dati sono poi riversati nell’annuale Relazione al Parlamento, e dunque c’è una piena trasparenza su tutto quello che riguarda l’aborto nel nostro Paese, così come impone la legge 194.
Perché questa trasparenza sia mantenuta, con le nuove linee guida, bisogna prevedere una farmacovigilanza specifica e dedicata, differente da quella dell’aborto non chimico, per via delle caratteristiche proprie della procedura, che non solo è incerta e variabile nelle tempistiche ma tende a sfuggire al controllo pubblico, trasferendo l’aborto nella clandestinità domestica. È un metodo che, se non si effettuano i tre giorni di ricovero previsti dalle precedenti linee guida, comporta necessariamente che l’aborto vero e proprio, cioè l’espulsione dell’embrione, avvenga fuori dal luogo in cui sono state somministrate le due diverse pillole, che sia ospedale, ambulatorio o consultorio. In genere è dopo la seconda pillola, a 48 ore di distanza dalla prima, che cominciano le contrazioni e quindi la fase espulsiva e l’emorragia, ma la durata e la conclusione di questa fase non sono prevedibili. Se la donna torna a casa tutto è affidato alla sua gestione, non ai medici, e questo comporta una differenza fondamentale per l’organizzazione della sorveglianza sanitaria.
È bene ricordare che le precedenti linee di indirizzo erano state disattese solo in minima parte, se si esclude la volontà tutta politica dell’Emilia Romagna che ha avviato fin da subito la modalità-day hospital. Sono poche le Regioni che nel corso di dieci anni l’hanno seguita – Toscana e Lazio prima, e poi le ultime due in ordine di tempo, l’Umbria, con la presidenza di Katiuscia Marini e la Lombardia con quella di Attilio Fontana –, e il motivo è semplice: in presenza di eventuali contenziosi il ricovero ospedaliero, specie se in accordo con indicazioni ministeriali, offre maggiori garanzie per il Sistema sanitario nazionale. Per essere chiari, la maggiore tutela implicita nel ricovero comporta un rischio assai inferiore di cause e richieste di danni. Ma il trucco c’è: molto spesso nelle strutture in cui si utilizza il metodo chimico si sollecitano, più o meno velatamente, le donne a tornare a casa firmando le dimissioni volontarie: in questo modo si scarica tutta la responsabilità sulle loro spalle.
Gli effetti collaterali della Ru486 – vomito, diarrea, febbre, nausea, crampi dolorosi – e quelli avversi – necessità di accesso al pronto soccorso e/o di ricovero ospedaliero principalmente per emorragie e infezioni, e poi revisioni uterine per aborto incompleto o interruzione della procedura – sfuggono alla rilevazione usuale, costruita per le procedure abortive chirurgiche, che avvengono molto più velocemente: per queste ultime il ricovero in day hospital è clinicamente adeguato e consente la rilevazione dei dati in modo preciso e omogeneo. Per rendersene conto basta leggere le relazioni annuali al Parlamento sull’applicazione della legge 194, sempre dettagliate e puntuali, tranne proprio per la parte che riguarda l’aborto farmacologico, per il quale già adesso mancano dati importanti.
Ad esempio non conosciamo la distribuzione temporale della fase espulsiva, cioè non sappiamo quante donne hanno abortito in prima giornata immediatamente dopo la prima pillola, e quante ore o giorni dopo la seconda. Il Consiglio superiore di sanità (Css) per stabilire il grado di sicurezza del metodo è ricorso ai dati Istat (da quando la farmacovigilanza è affidata a un istituto di statistica?), ma quei dati non danno alcuna informazione sul decorso della procedura. È solo dalla letteratura scientifica che sappiamo che il 60% delle donne abortisce mediamente dopo 4-6 ore dal secondo prodotto, e le altre successivamente, con percentuali che vanno a diminuire fino al 14° giorno, ma non ci sono rilevazioni apposite nel nostro Paese.
Le domande sono molte. Per un effettivo monitoraggio sarebbe importante, per esempio, sapere a quante donne sono somministrate più dosi di prostaglandine: se dopo alcune ore non inizia l’emorragia è infatti possibile ripetere una o due volte la somministrazione di prostaglandine, prima di ricorrere all’aborto chirurgico. Sarebbe poi ovviamente necessario conoscere dove è avvenuta la fase espulsiva; chi ha riconosciuto al momento l’avvenuto aborto – autovalutazione o personale sanitario –, e anche come è stato verificato nel follow up che effettivamente l’aborto si sia concluso. Sarebbe utile una raccolta dedicata degli effetti collaterali e/o degli eventi avversi, anche in questo caso distinguendo fra quelli avvenuti al di fuori della struttura ospedaliera e all’interno.
Tutto questo va valutato diversamente per fasce di età: fermo restando che per le minori l’aborto chimico è indicato solo in regime di ricovero ospedaliero, diverse sono le situazioni se si ha poco più di 18 anni o 40.
C’è poi il capitolo del colloquio iniziale per la valutazione dei requisiti non clinici: chi e come stabilisce l’ammissibilità di donne ansiose, con bassa soglia del dolore, la verifica della condizione abitativa e la possibilità di raggiungere il pronto soccorso in un’ora? E c’è il capitolo delle donne straniere, per le quali è necessario stabilire, oltre che la presenza dei requisiti clinici e non clinici, l’avvenuta comprensione linguistica dell’intera procedura, e anche un eventuale affiancamento di un mediatore culturale nel corso della stessa, per evitare che abbiano difficoltà a comunicare nel momento del bisogno.
Il rischio del metodo chimico è psicologico e sanitario. È facile illudersi che l’aborto con la pillola sia assai più facile e meno doloroso: cosa vuoi che sia una pillola, si inghiotte e via, tutto finisce lì. Soprattutto, ci si illude di poter tranquillamente tornare a casa, e di non dover giustificare la propria assenza col datore di lavoro o in famiglia, mantenendo tutta la faccenda nel privato. Ma è proprio questo il problema: l’aborto scompare dalla scena sanitaria, e non avremo mai informazioni attendibili su quello che avviene tra le mura domestiche. Se il Ministero non costruisce un apposito sistema di rilevazione dei dati non sapremo nulla sugli eventi avversi e sugli effetti collaterali, anche perché le donne tendono a non denunciare quello che accade quando si abortisce, perché vogliono soltanto cancellare l’evento, chiuderlo in una zona nascosta della memoria, parlarne il meno possibile. E così si potrà continuare a dire pubblicamente che la Ru486 è un metodo sicuro, meno doloroso, più semplice: non ci saranno mai dati a smentire la triste favola dell’aborto facile.