Attualità

Reportage. A Rosarno la baraccopoli raddoppia. E anche il degrado e lo sfruttamento

Antonio Maria Mira, Inviato a Rosarno e Candidoni (Reggio Calabria) sabato 23 dicembre 2017

Baracche a perdita d’occhio. Centinaia di baracche. Enormi cumuli di rifiuti. Acqua e fango. Benvenuti nella tendopoli di San Ferdinando, sempre più baraccopoli. Benvenuti tra i lavoratori migranti di Rosarno e degli altri paesi della Piana di Gioia Tauro, che qui lavorano nella raccolta della frutta, vivendo in condizioni di degrado. Ma non era stata costruita una nuova tendopoli? Infatti è lì di fronte, con le sue belle tende pulite e ordinate, recintata, sorvegliata. Tendopoli di Serie A, costata 300mila euro. Ospita poco più di 500 lavoratori migranti. Doveva sostituire quella vecchia, nata cinque anni fa dopo la rivolta degli africani contro sfruttamento e violenze. Ma quella è rimasta, anzi è più grande dello scorso anno. Più grande di sempre. Tendopoli di Serie B, o anche meno, che ospita più di duemila persone. E non è neanche la situazione peggiore come vedremo più tardi.



Camminiamo tra baracche in legno, teli di plastica, cartone e perfino lastre di eternit. A luglio un incendio ne aveva distrutto gran parte. Ed è stato l’evento che ha favorito il "trasloco" nella nuova tendopoli. Ma poi si è perso tempo, non si è proceduto all’eliminazione della vecchia struttura che si è nuovamente riempita, mentre sulle ceneri delle baracche ne sono sorte di nuove, moltissime, che ora occupano tutto lo spazio che prima era libero. Molto grandi. «I posti letto si affittano», ci spiegano. E mentre giriamo tra i "vicoletti", ne vediamo di nuove in costruzione, anche fuori dal perimetro originario. Non era mai successo. Senza energia elettrica (è stata staccata quando è nata la nuova tendopoli) né acqua potabile. Coi container dei bagni ormai in pezzi (nessuna manutenzione in vista del trasloco).

E con l’aumento delle baracche sono arrivate anche negative novità. Vediamo tante ragazze, soprattutto in una zona. Sono prostitute. Concentrate in una sorta di "quartiere a luci rosse". Compare una giovane con un bimbo molto piccolo legato sulle spalle. Anche lui è una novità. Il protettore delle ragazze, arrestato e ora di nuovo libero, ha fatto costruire anche una strada d’accesso perché l’unica esistente era troppo lontana. E oltre alla prostituzione, anni fa assente, è cresciuto anche lo spaccio di droga, soprattutto cannabis, coltivata nella Piana in campi di ’ndranghetisti dove lavorano anche alcuni migranti. Lo hanno accertato alcune operazioni delle forze dell’ordine che spesso intervengono con controlli e ispezioni. Ma nulla possono per bloccare la crescita della baraccopoli. E non solo di quella.


Ci spostiamo di poche centinaia di metri fino alla "fabbrichetta", il capannone occupato quattro anni fa. Qui dormono almeno in trecento, nell’unico grande ambiente. Fino all’anno scorso c’erano tante tendine. Anche perché piove dentro. Ora ci sono solo materassi a terra o sui cartoni. Ovviamente senza luce e acqua potabile. Niente bagni, solo latrine e docce improvvisate con quattro pali e un telo. Come in tutti questi anni ci accompagna don Roberto Meduri, parroco di S. Antonio al "Bosco" di Rosarno, la contrada dove cinque anni fa scoppiò la rivolta. Porta medicine, viveri, sapone, ma anche una spilletta della Juve per un ragazzo tifoso.


In tanti si avvicinano. Poche parole ma pesano. «Vitamine per favore. Grazie. Rispetto». «Sono triste, perché oggi niente lavoro». Non è un buon segnale. La depressione e altre patologie mentali sono molto diffuse tra i migranti. Arriva un camioncino di un locale che vende patate e cipolle. Prezzi bassi ma sono di scarsa qualità. Eppure si fa la fila. C’è fame e pochi soldi.

Ora andiamo alla ricerca dei migranti che vivono nelle campagne, quelli che nessuno vede, che nessuno cerca. Ci accompagna Bartolo Mercuri, presidente dell’associazione "Il Cenacolo" di Maropati che da più di 20 anni aiuta i migranti. Uno dei pochi a sapere dove trovare gli "invisibili". Ci infiliamo tra uliveti e agrumeti, tra Rosarno e Rizziconi. Contrada Marotta, tra alberi carichi di clementine appare un piccolo casolare diroccato. Davanti una baracca messa molto male. All’interno, nel buio si intravedono poveri giacigli, coperte, fornelletti. «Quanti siete?». «Quarantacinque, 7 nella baracca». «Ma i materassi sono molti meno». «Se siamo in tre per materasso fa meno freddo». Niente elettricità, acqua a un chilometro. Per fare la doccia anche qui quattro pali e un telo. E il bagno? Ridono e fanno il gesto "laggiù", tra gli alberi. Intanto stanno fuori attorno a un fuoco. Vengono da Borgo Mezzanone, la baraccopoli di Foggia, dove hanno raccolto i pomodori. Da un mese sono in Calabria. Poco lavoro, 25 euro per 10 ore, 3 al caporale. Ovviamente in nero. Bartolo, "papà Caritas", scarica pasta, carne in scatola, riso. Per un po’ qui non si muore di fame. Come a contrada Russo Spina, dove vivono in 300. Casolari, baracche e perfino un’ex porcilaia. E pagano pure: 20 euro al mese per posto letto, un bell’affare per il proprietario.

La fattoria dove si lavora in regola e l'integrazione produce ricchezza


Lavoratori migranti in regola, col contratto e anche con una casa. Accade anche nella Piana di Gioia Tauro, a pochi chilometri da Rosarno. È la storia della cooperativa Fattoria della Piana, azienda agroalimentare di altissima qualità e di grande successo. Una produzione di grandi formaggi e di energia pulita (biomasse e fotovoltaico), un fatturato di 17 milioni di euro, 900 mucche, da poco i suoi prodotti sono sugli aerei della Delta Airlines. Ha 204 dipendenti, il 10% immigrati. Ma anche disabili e ragazzi che hanno fatto proprio qua un’esperienza di alternanza scuola lavoro, compreso un giovane che aveva commesso un reato ed è stato "salvato" dal lavoro. «C’è chi specula sulla paura per il diverso, per il migrante. Noi non facciamo niente di speciale, facciamo solo le cose in regola», ci spiega Carmelo Basile, presidente della cooperativa, che aderisce a Confcooperative. Ma "fare le cose in regola" qui significa dire di no alla ’ndrangheta, anche dopo aver subito attentati. E fare contratti ai lavoratori migranti, per alcuni offrire l’abitazione nella fattoria, per altri garantire per l’affitto.

I migranti non nascondo la soddisfazione. Anche perché nel passato hanno subito lo sfruttamento. Ousmane, 41 anni viene dal Senegal e dal 2011 è in Calabria. «Vivevamo in 20 in un casolare abbandonato, senza acqua né luce. Mi pagavano 25 euro al giorno, in nero, per zappare la terra». È meccanico e qui alla fattoria si occupa dell’impianto che produce biogas e poi energia. E grazie al collegamento sullo smartphone è il primo ad intervenire in caso di allarme. «Qui mi trovo bene (vive con la moglie Nafi in dolce attesa), anche i rosarnesi mi dicono che sono fortunato, mi invidiano, ma mi piacerebbe portare questo lavoro in Senegal, lì abbiamo bisogno di energia».

Anche Malik Diallo, 43 anni vorrebbe tornare in Senegal, per rivedere il figlio che quando è partito aveva 2 anni e la figlia nata dopo la partenza e che non ha mai conosciuto. «Ora che ho un contratto posso realizzare questo sogno e anche mandarli a scuola». Lui è in Italia dal 2010, entrato come musicista di una band e pagando 4.500 euro, perché in realtà non sa suonare nulla. Altri 4.800 euro li ha poi pagati in Italia per un contratto di lavoro falso e ottenere così il permesso di soggiorno. A Rosarno è dal 2014, ha lavorato nei campi, «quando c’era lavoro...», per i soliti 25 euro e per le solite 10 ore al giorno. «Poi mi hanno detto che qui c’era una persona seria. Così un giorno che non c’era lavoro ho provato...». Basile l’ha assunto e ora lavora tra le stalle, l’agrumeto e il biogas. «Mi sento accettato. Farei di tutto per questa azienda perché mi ha cambiato la vita».

Basile sorride, ci tiene ai suoi dipendenti che a mensa (ma sembra un ristorante) mangiano assieme a lui, «mi dà fastidio quando mi chiamano padrone...». Ci tiene che raccontino le loro storia. Come il vulcanico Luciano, 57 anni, ex poliziotto di Santo Domingo, a Gioia Tauro del 1986, alla fattoria dal 1992. «Faccio il baby sitter dei vitelli», ci spiega nella grande stalla che ne ospita 104, che lui accarezza come figli. «L’integrazione non si studia, si impara. Qui sono stato accolto. Vorrei mandare una nostra foto a Salvini per fargli vedere come lavoriamo».

E qui si lavora sodo, con efficienza e rispetto. Ce lo conferma Balbir Singh, indiano sikh di 43 anni, in Italia da 14, che col cognato si occupa della mungitura. «Lavoro bene perché c’è rispetto per la nostra religione. Basile ci tratta come una famiglia, mai come padrone. In altri posti volevano che tagliassi la barba e togliessi il turbante. Qui invece siamo come a casa nostra».

Una casa che hanno trovato anche due calabresi, Annarita e Attilio, ventenni che assieme ad altri due giovani sono stati assunti dopo l’esperienza dell’alternanza scuola lavoro. «Mi trovo benissimo – ci dice Annarita –. Mi ha fatto cambiare idea sul lavoro. Dalla Calabria non parto». Attilio era finito in un brutto giro. Ma dopo il primo arresto ha deciso che «solo il lavoro mi poteva aiutare. Non volevo più sapere nulla di "loro"...». E si capisce di chi parla. Così è tornato dove era stato da studente. «Gli ho detto che lo avrei messo alla prova, dalle quattro a mezzogiorno. Mi ha risposto "va bene" – ricorda Basile –. Non lo faccio come opera di bene ma perché è bravo. È una scommessa vinta, mandopera "rubata" alla ’ndrangheta».