Le nuove schiave raccolgono l’oro verde nelle serre della fascia trasformata, all’estremo sud della Sicilia. Sono romene, vittime di una nuova forma di tratta nella piana che corre per decine di chilometri tra Gela e Vittoria. dove su 60mila abitanti 12mila sono stranieri e la proprietà fondiaria frammentata ostacola i controlli. Arrivano dalle aree rurali a nord della Romania, le paghe arrivano a 15 euro per durissime giornate di 10-12 ore passate a raccogliere peperoni, pomodori, zucchine e melanzane sotto teloni dove la temperatura in questi giorni sfiora i 60 gradi. Prodotti che finiscono nei grandi mercati ortofrutticoli d’Italia e del Nord Europa. Lasciano 200 euro al “caporale” e quindi al racket che procura il lavoro. E di notte le più giovani, sotto ricatto di licenziamento davanti a un rifiuto e per racimolare qualche euro supplementare da mandare a casa a famiglie in miseria, devono subire gli abusi sessuali di alcuni proprietari terrieri nei dormitori ricavati da casolari abbandonati nelle campagne di Acate, vicino alle grandi serre dietro il mare, o in compiacenti locali pubblici. Sfruttatori che spesso le mettono incinta costringendole ad abortire. Negli ultimi tre mesi al consultorio di zona risulta la cifra record di 45 interruzioni volontarie di gravidanza, tutte compiute da giovani romene sole. Nell’estate dopo Rosarno la situazione in questo immenso orto siciliano è peggiorata per i braccianti. L’allarme è stato lanciato dalla società civile impegnata nell’accoglienza, la Caritas diocesana di Ragusa, la Parrocchia dello Spirito Santo di Vittoria, la locale Camera del Lavoro e dalle autorità religiose dei migranti. Arduo rompere l’omertà, perché la paura di perdere l’unica fonte di sostentamento cuce le bocche. Uno dei pochi testimoni di questa schiavitù invisibile è Eugeni Havresciuc, pastore romeno della chiesa avventista del Settimo giorno, cui diverse donne hanno chiesto aiuto.«Ufficialmente i romeni sono mille, più probabilmente tremila. Uomini e donne, partono in pullman dalle province rurali della Moldavia romena dove vivono in miseria. Come europei non hanno limiti di movimento né problemi di permesso e accettano di lavorare per metà paga. Anche se chiaramente le cifre in busta risultano diverse e molti lavorano in nero. Qui vivono dispersi nella campagne, nascosti e in condizioni indegne. Lo sfascio famigliare costringe sempre più donne a partire. In media hanno 22-25 anni. Sono quelle più soggette ad abusi. Sono sposate e hanno figli piccoli, ma non hanno scelta». La dinamica dell’anagrafe agraria di Vittoria è impressionante. Nel 2007 i braccianti romeni erano 60 a fronte di 2mila tunisini. Nel 2008, con l’ingresso della Romania nell’Ue passano a 1.800 contro 1.600. Oggi solo ad Acate, frazione dove sono concentrati, i 774 romeni residenti superano anche gli italiani.Intanto la tensione sale a Vittoria, come denuncia un dossier Caritas, dove la comunità tunisina, composta da circa 9mila persone, dopo 30 anni si è integrata. Hanno aperto negozi, alcuni da braccianti sono diventati imprenditori. Ma ora sono stati soppiantati dai romeni. E, ironia della sorte, dalla concorrenza spietata del loro stesso paese che esporta nella piana ortaggi sottocosto poi marchiati come prodotto locale. Il cuore della piccola casbah è piazza Senia. Alle sei del pomeriggio è affollata da maghrebini, quasi tutti disoccupati. La malavita locale sta pescando in questa nuova sacca di povertà per lo spaccio. Ci sono già state scaramucce con i romeni, qualcuno teme scontri.Hamid Jalabari, rappresentante del centro culturale islamico conferma il disagio. «Mi risulta che almeno un centinaio di persone siano partite. Non so se rimpatriate o migrate altrove. Quando un tunisino si regolarizza, il datore lo lascia a casa e assume un romeno in nero». Il sistema illegale conviene a molti. Lo spiega Beppe Scifo, sindacalista della Cgil. «Lo sfruttamento è operato da ex braccianti affrancati. Assumendo sottocosto i romeni i proprietari ad esempio eludono l’Inps. Con un contratto che copre 102 giorni, gli altri 102 della stagione sono in nero, ma i braccianti figurano disoccupati. Così vengono paganti poco (un contratto regolare va dai 30 ai 40 euro) ma anche a loro conviene perché prendono 102 giorni di disoccupazione dall’Inps. Ovvero 2mila euro, parte dei quali va al caporale. E la mafia locale, la Stidda, impone servizi agricoli». C’è una speranza. La Prefettura ha riconosciuto lo sfruttamento delle lavoratrici come nuova forma di tratta. Chi parla ha dunque diritto alla protezione. A fine mese la Rete nazionale antitratta e la Cgil lanceranno una campagna di informazione diffondendo adesivi con il numero verde nazionale antitratta. Uno spiraglio nella piana che ha perso la testa per l’oro verde.