Ignazio Marino, non lascia, e raddoppia. Privato a suon di defezioni delle tre figure chiave della Giunta, il vicesindaco Luigi Nieri, l'assessore ai Trasporti (prima dimissionario-respinto e poi "dimissionato") Guido Improta, e la prestigiosa Silvia Scozzese (una donna in quota Anci chiamata al capezzale del malato terminale delle Finanze capitoline), orfano anche del segretario generale, il primo cittadino di Roma rilancia.
Tenuto in vita - ma non assolto - dalla relazione del prefetto Gabrielli che avrebbe dovuto decidere sul paventato commissariamento, venuto meno anche Sel, l’unico alleato della maggioranza, il sindaco rinsalda un asse forte con il suo partito e con i suoi vertici, con i quali c'erano stati momenti di forte tensione.
Un matrimonio di interesse più che altro, sancito sull'orlo del precipizio. Nel quale, una volta caduta rovinosamente la Giunta capitolina, per di più alla vigilia di un Giubileo straordinario, sarebbe finito dentro con tutta probabilità anche il partito di maggioranza, che con scarse probabilità di successo avrebbe potuto approcciare un voto anticipato a Roma, una volta ammainata bandiera sull'onda degli scandali di Mafia Capitale e dell'incredibile disservizio dei trasporti. M5S era già pronta a tentare la sua scalata al Campidoglio, sulle ceneri del Pd e del centrodestra.
Ora, checché ne dica Marino che si tratta di scelte "sue", è da escludere che l'operazione di portare in Giunta quattro nomi di rilevanza nazionale ed altamente evocativi sin dal cognome sarebbe potuta riuscita se sulla sua Giunta malconcia non si fosse allargato a un certo punto il mantello protettivo del suo partito e di Palazzo Chigi.
Accetta
Marco Causi, fino a qualche giorno fa in predicato per la guida della Commissione Finanze di Montecitorio, che rispondeva sdegnato alle voci ricorrenti su un suo ritorno al Campidoglio.
Accetta
Stefano Esposito, l'uomo forte, avversario dei No-Tav, che dovrà mostrare ora di avere spalle tali da fronteggiare anche i non meno agguerriti macchinisti delle metro capitoline che combattono la loro battaglia in modo certo più scaltro, a suon di leggi e regolamenti applicati alla lettera.
Accetta
Luigina Di Liegro, la nipote del sacerdote simbolo della solidarietà a Roma, che dovrà tentare di archiviare la pagina più cupa scritta nello stesso campo con il mercimonio sui poveri romanzato dalle inchieste finite sui giornali.
Infine
Marco Rossi Doria: nome non meno evocativo, figlio d'arte del grande economista del Mezzogiorno, maestro di strada, scrittore di successo e sottosegretario.
Un poker di nomi dietro il quale non è difficile scorgere la lucida regia del presidente dell'assemblea del Pd Matteo Orfini, commissario del Pd della capitale, l'uomo che ha impedito il default del partito a Roma, ben sapendo che l'operazione non poteva riuscire al prezzo di vivacchiare, ma solo mandando un segnale forte.
Il segnale è stato mandato, Marino non crede ai suoi occhi, ma ora toccherà solo a lui dimostrare che ha imparato la lezione e che il quadro non certo idilliaco della relazione Gabrielli ("pochi interventi e di scarsa efficacia", gli vengono attribuiti, per contrastare il malaffare ereditato dalle precedenti gestioni) è lasciato alle spalle.
E i cittadini, soprattutto, si aspettano dal sindaco più fatti e meno "foto-opportunity", meno dichiarazioni eclatanti o iniziative fuori dall'alveo istituzionale, come le trascrizioni dei matrimoni gay contratti all'estero, una sorta di rivolta contro il Viminale e la legislazione vigente. Più segnali del ritorno di Roma nel rango di grande capitale europea.