«Cohl Chetane», «tutte unite», le comunità rom faranno sentire la loro voce domani a Roma, davanti a Montecitorio in una manifestazione nazionale unitaria a partire dalle 9, «per ottenere riconoscimento dello status di Minoranze. La predisposizione della Strategia nazionale. Per ottenere i Diritti negati da sempre». Perché il termine «zingaro» è divenuto un marchio d’infamia, così come la condanna al nomadismo, all’origine dettato da mestieri itineranti. Il popolo «romanì» non vuole nessuna di queste definizioni: nessuna potrà mai tratteggiare una tradizione millenaria, fatta di abilità artigiane, musicali, ludiche, perse in un lungo peregrinare, fuggendo da persecuzioni e massacri. Poche sono le verità veicolate in Italia sui «rom», altro termine impropriamente generico, che al suo interno vede invece cinque grandi comunità: romanès, Rom, Sinti, Kale, Manouches e Romanichals. Unica la lingua, 18 i dialetti che la caratterizzano, sullo sfondo di una bandiera verde e azzurra con una ruota a 16 raggi ed un inno, il «gelem gelem». Anche il tanto abusato sinonimo per definirli è un falso dell’informazione: perché «nomadi» loro non lo sono più da tempo. La mancanza di conoscenza profonda del popolo rom ha reso deboli o nocivi gli interventi pratici che le amministrazioni locali cercano di mettere in campo in Italia: come gli sgomberi forzati che, denunciano le organizzazioni per i diritti umani, lacerano i fragilissimi contatti con i servizi territoriali, mandando in fumo i dati raccolti faticosamente dai censimenti locali. I rom rimangono nell’isolato pantano delle nostre città, a guardare da lontano un universo che non gli appartiene. Il fallimento pratico, secondo le analisi di associazioni e istituzioni, ha dietro un fardello di pregiudizi, errate terminologie, ma anche carenti metodi di censimento e osservazione, che continuano a definire in modo approssimativo una realtà sociale complessa e in costante mutamento. Primo assunto da scardinare, stando all’ultimo rapporto sul tema presentato qualche mese fa dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, è il crederli ancora «nomadi» e «stranieri». Il documento ha stimato che il numero di rom presenti in Italia è tra 140mila e 170mila persone, di cui il 60% è costituito da italiani e il 90% è stanziale. Secondo il ministero dell’Interno nel nostro Paese le famiglie che ancora viaggiano in carovana rappresentano il 2-3% dei rom, sinti e caminanti. In moltissimi sono arrivati nel nostro Paese nel 1400; più della metà è residente e ha la cittadinanza del nostro paese, tanti vivono in appartamento e svolgono qualsiasi tipo di lavoro. E compongono un popolo di giovanissimi: i minori di 14 anni sono il 40% della popolazione totale, mentre gli adulti che superano i 60 anni rappresentano una percentuale bassissima. Nei campi nomadi vivono circa 40.000 persone, di cui metà sono cittadini italiani. Con buona pace di chi paventa «invasioni barbariche», il Rapporto dice anche che il nostro è il Paese europeo in cui la presenza di queste popolazioni registra la percentuale più bassa (pari allo 0,02% della popolazione), ma anche quello che ha il primato dei campi nomadi: «Una realtà - si legge nel rapporto - che con pochissime eccezioni, non esiste in altri Paesi europei. E si tratta di una realtà caratterizzata, per usare il linguaggio delle convenzioni internazionali, da condizioni inumane e degradanti». Numeri questi, che sono da considerarsi ancora oggi solo stime, data la grande difficoltà di avere censimenti precisi di popolazioni dove «molti degli appartenenti a questi gruppi mettono in atto strategie mimetiche allo scopo, laddove è possibile, di essere assimilati al resto della popolazione». Battere l’ignoranza sull’argomento, dunque, è «il punto di partenza senza il quale - sottolinea il Rapporto - nessuna politica può essere costruita».