Cinque arresti per il rogo della fabbrica-dormitorio di Prato in cui lo scorso primo dicembre persero la vita sette operai cinesi. In carcere sono finiti i tre gestori di fatto del pronto moda: due sorelle cinesi e il marito di una di loro. Ai domiciliari i proprietari italiani del capannone: i fratelli Giacomo e Massimo Pellegrini, soci della Mgf Immobiliare, ai quali viene contestata la stessa accusa: omicidio colposo aggravato plurimo. I sette operai cinesi morirono carbonizzati, sorpresi all’alba dalle fiamme mentre dormivano nei soppalchi in legno e cartongesso costruiti abusivamente nella fabbrica. Soltanto due di loro e i due gestori di fatto dell’azienda presenti al momento del rogo riuscirono a fuggire, uno di questi ultimi rimase ferito. Nel capannone mancavano uscite di sicurezza, estintori, maniglioni antipanico, o come recita l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip: «Le violazioni accertate sono così gravi e onerose che non vi è da chiedersi quante norme siano state violate, ma quante piuttosto ne siano state rispettate». I dieci operai lavoravano quasi tutti a nero per 14/16 ore al giorno, anche di notte, senza riposo settimanale. Una situazione diffusa nel distretto del pronto moda cinese a Prato: 4 mila imprese, un’evasione fiscale stimata in oltre un miliardo di euro l’anno. Aziende, quelle orientali, quasi sempre in affitto e mai proprietarie dei capannoni, per eludere il fisco, e intestate a prestanome: come la fantomatica Li Jianli, la donna cinese che risulta titolare della Teresa Moda in cui è avvenuta la tragedia, ma nei fatti è poco più che un fantasma, tuttora irreperibile nonostante abbia la residenza a Roma. A gestire l’attività - hanno ricostruito la squadra mobile e la guardia di Finanza di Prato - erano marito, moglie e cognata, già pronti ad aprire una nuova ditta di confezione da intestare ad un’altra testa di legno. Per questo pericolo di reiterazione del reato sono scattati gli arresti, mentre ai due italiani è contestato il possibile inquinamento probatorio. L’indagine sul rogo di Prato rappresenta una svolta a livello giudiziario: per la prima volta la Procura è convinta di aver raccolto prove sufficienti a dimostrare che i proprietari dell’immobile erano a conoscenza della promiscuità tra lavoro e dimora e dell’inadeguatezza della struttura da un punto di vista della sicurezza. «Senza il loro operato la tragedia non sarebbe accaduta» ha detto il procuratore della Repubblica Piero Tony, che ha spiegato così il «concorso autonomo di cause indipendenti in materia colposa» che ha portato al drammatico incendio. Alla società immobiliare in città erano riconducibili altri capannoni, in condizioni precarie, affittati ad altri laboratori cinesi e sequestrati dalle forze dell’ordine. Uno di questi provvedimenti, di natura preventiva, è finalizzato alla confisca per l’equivalente del profitto illecito che l’immobiliare avrebbe conseguito, dando in locazione l’immobile privo dei requisiti di sicurezza. L’avvocato Alberto Rocca, difensore dei due indagati italiani, ha già presentato istanza di libertà al Tribunale del Riesame: «La misura cautelare, prevista per un mese, si basa sul presunto obbligo giuridico di vigilare su un proprio bene da parte del proprietario – afferma il legale –. È una tesi che non condividiamo e che è stata già bocciata da numerose sentenze».