Non ci si vorrebbe trovare ad ammettere che «tutto è cambiato affinché nulla cambi». Però, se per Edoardo Zanchini, responsabile scientifico di Legambiente, «si perde oltre un terzo dell’acqua che si immette nella rete», qualcosa non va. Nel 2006, secondo il Comitato di vigilanza sulle risorse idriche e sui rifiuti, su 100 litri immessi nei tubi oltre 40 «si perdevano». A quel tempo, il dato più rilevante riguardava le regioni meridionali e le isole, dove 50 litri su 100 sparivano nel nulla. Nelle regioni del Centro la media di acqua perduta era del 28%, nel Nordovest del 21%. Le punte peggiori riguardavano l’acquedotto pugliese (perdite intorno al 50-60%), in Val d’Aosta e Sardegna del 43%. Oggi le città che hanno le perdite di rete maggiori si trovano ancora nel Centro-Sud. A Cosenza raggiungono il 73%, a Campobasso i 65% e a Latina il 62%. Segno che, quanto investito finora non è bastato o non è stato bene investito, visto che si partiva da situazioni già difficili. Si tratta ancora di perdite o di acqua non fatturata (cioè non pagata) dai comuni come accadeva quasi 10 anni fa e che mettono in difficoltà i Consorzi che devono comunque onorare i pagamenti richiesti dalle Regioni? Per contro, ci sono alcune metropoli d’eccellenza: a Roma si perde il 27% e a Milano appena l’11%. Situazioni che dovrebbero essere la norma e invece sono l’eccezione, visto che almeno 50 città perdono più del 30% dell’acqua immessa nella rete. Problemi irrisolti e amplificati dalla siccità. Ma assai di più dalle lentezze dell’applicazione delle leggi in materia; dalla definizione degli ambiti territoriali ottimali (Ato) che non sempre ha rispettato le leggi europee (come la "Water Framework"), suddividendo i distretti idrografici in base alle province amministrative (è successo in modo evidente in Sicilia); da battaglie legali tra amministrazioni e movimenti di ripubblicizzazione dell’acqua che sono confluite, a livello nazionale, in un referendum che ridisegnerà il quadro legislativo finora in vigore, sperando che riesca a risolvere le criticità rimaste insolute per 17 anni. Basti pensare che nel 2009 la Federconsumatori faceva il punto del quadro di attuazione della legge Galli e registrava che, a 15 anni dalla sua approvazione, i piani d’ambito approvati erano 85 su 91 e che coprivano il 96% della popolazione. L’affidamento al gestore secondo la nuova logica – poi resa obbligatoria dal successivo decreto Ronchi – era avvenuta solo per 69 Ato su 91. Nel 60% dei casi, l’affidamento del servizio avveniva
in house ciòè senza gara d’appalto e aveva visto protagoniste società dalla proprietà interamente pubblica. Allora solo 7 erano interamente private mentre la forma della società mista era stata scelta in altri 31 casi, la metà dei quali aveva comportato la scelta del socio privato attraverso gara d’appalto. Il referendum, però, ha già ribaltato questo quadro. La legge di ripubblicizzazione prevede, infatti, anche la creazione di un fondo per sostenere e riportare tutte le società miste interamente al pubblico. Quale il vantaggio, al di là della battaglia morale su cui si è imperniato il referendum? Una battaglia che – come sottolinea Emanuele Fantini, ricercatore di scienze politiche dell’università di Torino e autore del saggio
La privatizzazione dell’acqua in Italia: ambiguità, resistenze e questioni aperte – è stata anche una riflessione collettiva su «come conciliare le logiche imprenditoriali della gestione dei servizi con quelle etiche della tutela del bene comune?». I risultati si vedranno in futuro, se la nuova legge verrà applicata in fretta. Ma dovrebbe soprattutto consentire una maggiore trasparenza sulla gestione, eliminando la contraddizione delle società a partecipazione mista. In questo modo, si riequilibrerebbero una serie di pasticci tutti italiani. Come quello di avere visto seduti, nei cda di società nostrane che gestiscono il sistema idrico, politici vecchi e nuovi, controllori e controllati, con un fitto sistema di ingerenze e conflitti d’interesse che ha causato più volte l’intervento dell’Autorità garante e i ricorsi di sindaci e cittadini.
MASSARUTTO: «LE GARE GARANTIVANO LA CONCORRENZA»La vittoria dei movimenti per l’acqua pubblica nel referendum del 2011 non fa esultare chi la pensava diversamente. Già quando il decreto Ronchi venne convertito in legge, il dibattito sulla privatizzazione dell’acqua si era riaperto tra molte polemiche. C’era chi vedeva del buono nella norma perché prevedeva un obbligo chiaro per gli enti locali: affidare tramite gara la gestione dei servizi idrici a società di capitali pubblici, privati o misti. Il ricorso alla gara e il coinvolgimento del settore privato era stato considerato dal legislatore una modalità necessaria per allinearsi all’Europa in materia di concorrenza. Non solo: diventava garanzia di modernizzazione, efficienza e trasparenza rispetto alle gestioni del passato.Secondo Antonio Massarutto, professore associato di Economia Pubblica all’Università di Udine e direttore di ricerca presso lo Iefe – all’Istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente – dell’Università Bocconi, il dreceto Ronchi è stato un’occasione mancata: «Con la legge Galli nessuna privatizzazione era in corso: avere imprese private nelle compagini delle gestioni o non averle cambiava davvero poco. Il servizio è e resta un servizio pubblico (ci mancherebbe che non fosse così). Tariffe, qualità, priorità di intervento le decide il soggetto pubblico. Solo che, una volta che le ha decise, deve trovare la forma gestionale in grado di farlo nel modo migliore, rispettando gli impegni, non aprendo voragini nei conti, possibilmente usando le risorse con efficienza. A volte il pubblico lo sa fare bene, a volte no. Un po’ di trasparenza (quello che le gare porterebbero) male non può fare, soprattutto considerato che la scelta dell’azienda pubblica, anche dopo un’eventuale gara, resta pienamente possibile e legittima. Il decreto Ronchi puntava a questo». Dall’altra parte, invece, il successo dei movimenti si deve anche a delle falle amministrative e giuridiche.«La legge Galli – ricorda il presidente del Contratto mondiale dell’acqua in Italia, Rosario Lembo – si è rivelata un progetto incompiuto. Sono anni che da tutte le parti – e quali che siano i governi – si afferma periodicamente nel Paese la necessità di superare la logica degli interventi d’emergenza e di pianificare una gestione delle risorse idriche finalizzata alla salvaguardia del patrimonio e all’intervento sui dissesti idrogeologici». In particolare, la varietà dei soggetti responsabili dell’attuazione della legge, sia nel settore specifico (chi e come deve distribuire l’acqua potabile? Chi regola l’uso irriguo? Chi l’imbottigliamento?), sia a livello territoriale (comuni, province, regioni, bacini) ha rallentato il processo. «Senza contare che le competenze restano ancora confuse tra Stato e Regioni e tra Province e Comuni». Un quadro di «grande incertezza giuridica, alimentato dalla varietà di disposizioni normative, a volte inserite nelle leggi finanziare, altre alle deleghe concesse alle Regioni, che non ha fatto altro che nuocere al nostro sistema idrico e ai cittadini italiani».