’ndrangheta. Rinascite (e cadute) dei baby boss. «Ma si può dire addio alla mafia»
Federico Cafiero de Raho
«Lo Stato non ha fallito perché comunque al giovane Rocco Molè abbiamo dato delle opportunità e poi ha scelto. Col progetto 'Liberi di scegliere' cerchiamo di toccare le coscienze, diamo la possibilità di fare delle esperienze diverse, culturali, lavorative, ma poi la libertà è sempre dell’individuo ». Così riflette Roberto Di Bella, presidente del Tribunale dei minorenni di Catania, per più di dieci anni a Reggio Calabria dove è stato l’inventore del progetto 'Liberi di scegliere', che tenta di salvare i figli e le donne delle famiglie di ’ndrangheta, inserendoli in percorsi lontani da casa. Non vuole parlare, «perché me ne sono occupato io», della vicenda di Molè, che dopo alcuni mesi di progetto, diventato maggiorenne, è tornato in Calabria prendendo in mano il comando del clan e arrestato tre giorni fa. Ma ci tiene ad affermare che il progetto «sta andando molto bene e dopo 9 anni i numeri sono importanti. Riguarda più di 100 minori e 25 donne andate via coi propri figli. I casi di recidiva, fisiologici, sono tra il 6 e l’8%, e riguardano i ragazzi che, passati i 18 anni, sono tornati nelle famiglie in Calabria».
Una convinzione che ha anche il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, anche lui tra i promotori del progetto. «'Liberi di scegliere' sta scardinando i modelli mafiosi. Crediamo che sia la strategia per indebolire e annientare le mafie. Romperle proprio nel loro meccanismo di controllo. E le mafie lo vogliono contrastare perché è l’unico che non parte dalla repressione». Ma, avverte, «serve una legge per coprire le generalità di coloro che scelgono un’alternativa rispetto al contesto criminale, e impedire che le mafie li raggiungano. E di questo intendiamo investire il ministro della Giustizia». E, aggiunge, «questo si rende ancora più indispensabile dopo la vicenda di Rocco Molè che tornato a casa è stato nuovamente ingoiato dal mostro. Anche per il modo con cui si esprimeva, partecipava, condivideva, sembrava un ragazzo che avrebbe chiuso con la provenienza mafiosa. Evidentemente è stato risucchiato, perché le mafie li vogliono recuperare al proprio modello criminale, dimostrando che chi è stato fuori ha vissuto peggio di quando stava a casa».
E, sottolinea anche Di Bella, «purtroppo la Calabria ancora non ha maturato gli anticorpi necessari per accogliere questi ragazzi. Per questo abbiamo co- struito con Libera, con la Cei, coi ministeri questi percorsi di accoglienza fuori dalla Calabria. Spesso i ragazzi quando rientrano nei loro territori sono gli unici componenti maschi rimasti in libertà, e sono sottoposti a pressioni terribili, sono soli e in quei contesti è molto difficile potersi liberare». Ma il progetto sta davvero incidendo, anche sui padri. «Continuo a ricevere lettere di detenuti calabresi, anche al 41bis, che mi ringraziano, mi mandano le foto dei figli, mi dicono che è la strada giusta. Più di uno mi ha detto 'avessi avuto io questa opportunità, e invece mi trovo in questo luogo'. Emerge tutta la loro sofferenza, il rimpianto di una vita sprecata e lontano dai familiari. Anche se questa 'debolezza' non possono manifestarla all’esterno perché non possono perdere la reputazione».
Chi ha conosciuto bene 'Roccuccio' Molè è Enza Rando, avvocato e vicepresidente di Libera. «Se fosse rimasto lontano dalla Calabria, ce l’avrebbe fatta. Doveva diventare più forte perché era un ragazzo che pensava di fare il forte ma in realtà era fragile, e con una responsabiltà enorme sulle spalle. Quando è andato giù noi pensavamo di aiutarlo ma poi abbiamo visto il suo comportamento». Ma, insiste anche lei, «questa vicenda mi convince ancor di più di quanto sia dirompente il progetto. Lui ha avuto la possibilità di scegliere e quindi ha una responsabilità maggiore. Ha avuto la possibilità di dire 'no, io rimango qui'. Ma penso a tutte le storie positive, ai bambini che potevano essere i prossimi killer e che invece non lo saranno più».
Poi il ricordo torna a quel ragazzo. «Rocco dopo la sua esperienza col progetto è come se avesse un neo, perché ha fatto l’esperienza della legalità e deve fare i conti con questo, perché penserà 'io ce la potevo fare, come tanti altri'. Mi dispiace soprattutto per lui. Non è il boss forte e violento, è ancora un ragazzo fragile che per i prossimi 2025 anni avrà il carcere. Sarà difficile. Farà i conti con la sua coscienza, con la capacità di chiedersi 'ma cosa ho fatto?'. Da noi faceva il bravo ragazzo, stava collaborando. A modo suo ce la voleva fare. Però la pressione della famiglia è stata più forte. Noi lo abbiamo sconsigliato in tutti i modi, quante telefonate. Però quel richiamo... i Molè sono i Molè». Ma ora, conclude, «questo deve essere il segnale che ancora di più bisogna osare. Io la mafia l’ho vista in faccia e dico che la lotta alla mafia è questa, non ci sono alternative».