Premier eletto più forte e capo dello Stato ridimensionato su una prerogativa fondamentale che attualmente detiene, il potere di scioglimento delle Camere. Il suo ruolo passa da arbitro a semplice notaio, nel caso che il presidente del Consiglio eletto decida di passare la mano, originando in tal modo lo sciogliemento delle Camere. Ma è ancora poco chiaro che seguito dare a un infortunio parlamentare che veda soccombere il governo su un provvedimento al quale è stata apposta la questione di fiducia. Scaduto oggi alle 12 il termine per la presentazione degli emendamenti, è questa la novità più forte che emerge dai 4 che sono stati presentati, d’intesa con i leader della maggioranza, direttamente dal governo: «
In caso di revoca della fiducia al Presidente del Consiglio eletto, mediante mozione motivata, il Presidente della Repubblica scioglie le Camere», recita il testo depositato.
«In caso di dimissioni volontarie del Presidente del Consiglio eletto, previa informativa parlamentare, questi può proporre, entro sette giorni, - è questo il punto cruciale - lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, che lo dispone. Qualora non eserciti tale facoltà e nei casi di morte , impedimento permanente, decadenza, il Presidente della Repubblica può conferire, per una sola volta nel corso della legislatura, l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio».
«Una formulazione più chiara», la definisce
Giorgia Meloni da Tokio a conferma che il via libera definitivo è venuto dai leader e da lei stessa in prima persona. Perché
«sono gli italiani che devono decidere da chi farsi governare. Basta inciuci, trasformismo e governi tecnici. La democrazia è quella che risponde ai cittadini, altri hanno privilegiato governi fatti nei palazzi». Con questa nuova formulazione, quindi, il premier eletto avrà sostanzialmente nella sua disponibilità il potere di chiedere lo scioglimento delle Camere. Di fronte alla mole di emendamenti delle opposizioni, con il Pd, che ne ha presentati circa 800, ma anche Azione (confermando la rottura con Italia viva, favorevole invece all’elezione diretta) che chiedono il cancellierato, Meloni si mostra tranquilla: «L'opposizione fa il suo lavoro, mi sembra abbastanza normale, loro non vogliono l'elezione diretta del capo del governo. È una posizione legittima ed è normale che cerchino di realizzarla con gli emendamenti. Per quello che riguarda la maggioranza, sono molto contenta del fatto che lavorando si sia trovata una formulazione della norma che è più chiara rispetto alla precedente e che ribadisce un fatto semplice: sono gli italiani, se passa la riforma, che devono scegliere da chi farsi governare. Serve stabilità dei governi». Così la presidente del Consiglio nel punto stampa al termine del vertice bilaterale con il premier giapponese Fumio Kishida, a Tokyo.Soddisfatto anche il presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato
Alberto Balboni che ha gestito le ultime fasi della mediazione nella maggioranza chiedendo e ottenendo che si arrivasse alla fine a una proposta unitaria: «Una soluzione equilibrata – sostiene l’esponente di Fdi - che risolve il paradosso di un secondo premier non eletto con più poteri di quello eletto. Adesso pur con modalità differenziate l'ultima parola spetta al premier eletto», dice Balboni, confermando così l’intento di trasferire, di fatto, dal Colle a Palazzo Chigi la decisione sulla fine della legislatura.Ma il costituzionalista
Stefano Ceccanti individua una lacuna sul piano tecnico nel testo formalizzato dalla maggioranza. «Mentre viene normata l’ipotesi delle dimissioni volontarie e della mozione di sfiducia, che molto di rado viene approvata e quasi mai è stata all’origine della caduta dei governi in Italia, nulla si dice sul caso molto più frequente di una questione di fiducia apposta dallo stesso governo a un provvedimento che poi non viene approvato. Un caso che viene invece previsto e normato esplicitamente, ad esempio, dall'articolo 68 della Costituzione tedesca», ricorda Ceccanti. E proprio su questo preciso argomento nella maggioranza si leva ancora la voce critica di
Marcello Pera, coinvolto da Balboni nella valutazione delle diverse proposte in campo, ma non ancora soddisfatto della soluzione trovata: «Sul premierato, secondo me, c'è ancora lavoro da fare, in commissione e in Aula e dovremmo impegnarci tutti con riflessione e pacatezza», afferma l’ex presidente del Senato. In particolare, sostiene a sua volta, non è chiaro il caso in cui «un governo che sia stato battuto sulla fiducia su un provvedimento, ad esempio sul bilancio o sulla guerra». In questi casi, infatti, «il governo non è in dimissioni volontarie, ma obbligatorie, e perciò, secondo l'ultimo testo noto, non potrebbe chiedere lo scioglimento del Parlamento».
Ma per il capogruppo al Senato di Forza Italia Maurizio Gasparri con questa soluzione si è voluto lasciare, in caso di mancata fiducia, nelle valutazioni del premier se chiedere o meno una mozione di sfiducia esplicita. L'accordo sull'emendamento che regola la cosiddetta norma-anti-ribaltone prevista dal ddl premierato in discussione in Senato, elimina la figura originariamente prevista di un "premier di riserva" con più poteri del primo: «C'è un premier eletto, designato dai cittadini - spiega Gasparri- il capo dello Stato lo incarica di formare il governo, poi c'è una crisi politica, non ha più consenso, lo si vuole sostituire, quindi il Parlamento deve fare una mozione di sfiducia ai sensi dell'articolo 94 della Costituzione che già c'è scritta dal '48, ed è una mozione di sfiducia "motivata", quelle che adesso si usano per i ministri».
Altra previsione il limite ai mandati, che saranno due con la previsione di un terzo se nelle due legislature precedenti il presidente del Consiglio non ha governato per almeno sette anni e mezzo. Un altro emendamento di maggioranza prevede l’attribuzione al capo dello Stato su proposta del premier del potere di revoca dei singoli ministri oltre a quello di nomina già previsto. Eliminato, infine, il premio di maggioranza del 55%, che sarà definito con legge elettorale.