Cumuli di rifiuti bruciati nel quartiere San Antonio a Torre del Greco (Napoli), 17 novembre 2018. ANSA/CESARE ABBATE
La polemica sugli inceneritori prosegue a (ri)ciclo continuo. Lega e M5s restano sulle rispettive posizioni. La prima insiste sulla necessità di usare lo strumento tecnologico per superare l’emergenza rifiuti in Campania, ma non solo. Dall’altra il Movimento intona il "mai e poi mai". E continua a fare riferimento al contratto di governo nel quale si parla piuttosto di recupero dei rifiuti nell’ottica dell’economia circolare.INCENERITORI: QUANTI SONOGli impianti che bruciano rifiuti in Italia sono complessivamente
56 e per la maggior parte sono termovalorizzatori collocati al Nord.
Spesso nell'uso comune si usano in modo intercambiabile i termini «inceneritore» e «termovalorizzatore». In realtà si tratta di impianti profondamente diversi. Gli inceneritori sono infatti "forni" che hanno hanno come unico scopo quello di ridurre i rifiuti incenerendoli, senza nessun recupero energetico. Impianti vecchi, insomma, e spesso inquinanti, che oggi nessuno costruisce più.In Italia non sono molti e sono, a parte quello di Porto Marghera (Venezia), quasi tutti al Centro e
al Sud: San Vittore (Frosinone), Colleferro (Roma), Gioia Tauro (Reggio Calabria), Capoterra (Cagliari), Melfi (Potenza), Statte (Taranto).TERMOVALORIZZATORILa gran parte degli impianti che bruciano rifiuti dunque sono termovalorizzatori, non inceneritori: si tratta di impianti che usano rifiuti non riciclabili selezionati come combustibile, il cosiddetto "residuo secco" o Cdr (combustibile derivato da rifiuto).Impianti comunque necessari, anche in un ciclo di rifiuti avanzato e moderno che arrivi al tetto massimo di differenziata possibile, circa l'80%. Una parte dei rifiuti non è riciclabile: anche dalla lavorazione delle diverse sezioni della differenziata (carta, plastica, metallo, vetro) c'è una parte di scarti non riciclabile.Nei termovalorizzatori dunque finiscono innanzitutto i rifiuti solidi urbani (piccoli imballaggi, carta sporca, stoviglie di plastica, ad esempio) e quelli speciali (derivanti da attività produttive di industrie e aziende). Il residuo secco serve ad alimentare turbine e generatori che, a seconda del tipo di impianti, producono sia energia elettrica che acqua calda. E' il caso del termovalorizzatore di Brescia (ma anche Torino) che oltre a produrre energia elettrica, alimenta gli impianti di riscaldamento di interi quartieri. Altri grandi termovalorizzatori, oltre a Brescia, sono a Torino, Milano e Parma. Per legge, la temperatura di combustione deve essere sopra gli 850 gradi, per evitare la formazione di diossine. Se la temperatura scende, si attivano bruciatori a metano che la alzano. Gli impianti più moderni distribuiscono anche acqua calda per i termosifoni delle case. Anche se l’"impatto zero" non esiste, questi impianti sono definiti non inquinanti, ma hanno il problema degli scarti, in particolare ceneri e fumi. Recenti studi epidemiologici hanno però messo in dubbio il basso impatto ambientale dei termovalorizzatori.COS'E' UN TMB (TRATTAMENTO MECCANICO E BIOLOGICO)Il trattamento meccanico-biologico (TMB) è una tecnologia di trattamento a freddo dei rifiuti indifferenziati (o residuali dopo la raccolta differenziata) che sfrutta l'abbinamento di processi meccanici a processi biologici (digestione anaerobica e compostaggio). Si cerca in questo modo di ridurre l'indifferenziato separando materiali riciclabili che non sono stati inseriti dagli utenti negli appositi cassonetti. Una "differenziata secondaria" che non può certo sostituire la raccolta separata fatta a monte. Negli impianti TMB appositi macchinari separano la "frazione umida" (l'organico da bioessicare) dalla frazione secca (carta, plastica, vetro) in parte riciclabile e in parte da usare per produrre combustibile derivato dai rifiuti (Cdr) o residuo secco da avviare ai termovalorizzatori. Appositi macchinari separano i rifiuti indifferenziati: vengono sfruttati nastri trasportatori, magneti industriali, separatori galvanici a corrente parassita, vagli a tamburo, vaglio a dischi, macchine spezzettatrici e altre apparecchiature appropriate.COS'E' UN IMPIANTO DI COMPOSTAGGIOLa frazione umida, il cosiddetto "organico" - rifiuti urbani o scarti industriali dell'agroalimentare - viene vagliato, tritato e lasciato fermentare anche con insufflazione di aria in modo da provocare il decadimento biologico. Attraverso un controllo ottimale delle condizioni del processo (umidità, ossigenazione, temperatura) e l'eliminazione di eventuali inquinanti nella materia prima (residui di metalli pesanti e inerti vari) o microrganismi ritenuti patogeni per l'agricoltura, si produce terriccio fertile per la coltivazione agricola e la florovivaistica,
evitando il ricorso a concimi chimici a pieno campo.
Altre biomasse compostabili comunemente sfruttate sono rappresentate dai fanghi di depurazione e dagli scarti della cura e manutenzione delle aree verdi. Esistono anche in Italia impianti che riciclano il letame degli allevamenti zootecnici non solo per produrre compost, ma allo stesso tempo metano. Il gas - meglio,
biogas - prodotto dalla naturale fermentazione, viene catturato e usato per alimentare bruciatori che producono energia elettrica.
IL RAPPORTO TRA RIFIUTI URBANI INCENERITI E QUELLI PRODOTTI
Secondo il Rapporto rifiuti urbani dell'Ispra, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, nel rapporto tra quantitativo di rifiuti urbani inceneriti e quelli prodotti nel 2016 «si rileva che l’incidenza percentuale più elevata si registra in Molise (72%); ciò è da attribuirsi prevalentemente alle quote di rifiuti urbani di provenienza extraregionale trattati in tale regione. Seguono la Lombardia (39%) e l’Emilia Romagna (33%) dove incidono anche le quote importate dalle altre regioni. Valori percentuali superiori al 20% si rilevano per Campania (28), Trentino Alto Adige (22), Friuli Venezia Giulia (22) e Piemonte (21).
DISCARICHE FUORILEGGE
Giovedì 22 novembre la Corte europea di giustizia di Lussemburgo deciderà sul ricorso della Commissione Ue contro l’Italia per non aver chiuso «al più presto le discariche che non hanno ottenuto un’autorizzazione a continuare a funzionare o non avendo adottato misure necessarie ad assicurare la conformità ai requisiti previsti dalla direttiva 31 del 1999». Si tratta di 44 discariche: 23 in Basilicata, 11 in Abruzzo, 5 in Puglia, 3 in Friuli, 2 in Campania. La direttiva prevedeva che si intervenisse con la chiusura o la messa a norma entro il 16 luglio 2009. Già nel 2014 la Corte Ue ci ha condannato per altre 200 discariche non bonificate, dal Nord al Sud, comminandoci una sanzione di 42 milioni e 800mila euro semestrali. Da allora ne sono state bonificate 146, così ora paghiamo "solo" 11 milioni e 600mila euro ogni sei mesi. Continuiamo invece a pagare 120mila euro al giorno per la mancata attuazione del piano gestione rifiuti in Campania: 40mila per categoria di impianti, cioè discariche, termovalorizzatori e trattamento rifiuti organici.
LA SITUAZIONE IN CAMPANIA
La produzione dei rifiuti supera i 2,5 milioni di tonnellate, un dato costante dal 2014. La raccolta differenziata raggiunge quasi il 52%, un buon risultato anche se lontano dal 65% previsto dalla normativa Ue.
Ma i problemi maggiori riguardano proprio gli impianti, come emerge sia dalla Relazione della Commissione che dal Rapporto rifiuti urbani dell’Ispra.
Ad esempio delle 708mila tonnellate di umido raccolto solo 67mila sono trattate in regione per produrre compost e biogas. Così la Campania «destina consistenti quote di rifiuti ad impianti situati in altre regioni».
E il resto? 725mila tonnellate sono state avviate ad incenerimento nell’impianto di Acerra, l’unico in regione; 101mila sono finite nelle discariche regionali; 42mila sono state avviate ad impianti di recupero di materia e di depurazione (per il trattamento dei percolati) sempre in Campania. Il quantitativo di rifiuti destinato al di fuori della regione è stato di 326.800 tonnellate: 239.200 tonnellate avviate ad impianti di altre regioni; 87.600 trasportate al di fuori del territorio nazionale (Austria e Olanda). Dunque un unico termovalorizzatore, quello di Acerra, gestito dalla A2A.